martedì 23 aprile 2024

Guerra in Ucraina, guerra in Palestina

 (da laRegione del 19 aprile 2024) Leggi anche qui.

Persone che denunciano i massacri nella striscia di Gaza, mentre rimangono in silenzio, per non dire giustificano, i crimini della Russia e di Hamas, come se la responsabilità ultima del male fosse sempre e comunque solo dell’Occidente. 

Altre che sostengono il diritto alla difesa dell’Ucraina e di Israele, mentre rimangono in silenzio, per non dire giustificano, i crimini di Israele, come se la vita di un non occidentale valesse di meno della vita di chi vive in una democrazia.

Ma come riuscire a pensare e trattare in maniera il più possibile giusta ed equa sia il conflitto russo-ucraino che quello israelo-palestinese, al di là delle ipocrisie e dei doppi standard morali, politici e legali coi quali ci troviamo confrontati?

L’Ucraina, a differenza della Palestina, è uno stato legittimo riconosciuto dalla comunità e dal diritto internazionale. La guerra di aggressione e invasione russa è del tutto ingiustificata, sia dal punto di vista morale che legale. L’Ucraina, a differenza di Hamas con Israele, non ha mai aggredito la Russia né minacciato il suo diritto di esistenza.

Ipotesi quali l’espansione della Nato e/o la guerra per procura americana come cause fondamentali del conflitto non sono solo difficilmente dimostrabili coi dati di fatto, ma negano il diritto all’autodeterminazione di un popolo e tendono in ultima istanza a giustificare l’imperialismo russo.

Il problema di fondo invece del conflitto israelo-palestinese, è che se da un lato Israele avrebbe il diritto di difendersi contro chi, come Hamas, attacca e minaccia il suo diritto di esistenza, dall’altro non ci potrà mai essere giustizia in Medio Oriente fino a quando ai palestinesi non sarà riconosciuto il diritto alla libertà, all’autonomia e all’autodeterminazione. 

Qualsiasi posizione che sostenga il diritto alla difesa armata di Israele, senza che contemporaneamente si esiga da Israele il riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi, dovrebbe essere giudicata come moralmente, legalmente e politicamente inaccettabile. 

D’altra parte, insostenibile è pure qualsiasi posizione che sostenga il diritto alla resistenza e all’autodeterminazione del popolo palestinese, senza che contemporaneamente si riconosca il diritto di Israele a vivere in pace e sicurezza.

Il dramma è che oggi rischiamo di assistere, sia nel conflitto russo-ucraino che nel conflitto israelo-palestinese, non all’affermazione di principi minimi di giustizia, ma alla vittoria dei diritti del più forte.

Sia la Russia di Putin che Hamas che l’attuale governo israeliano negano ai loro popoli avversari il diritto all’autodeterminazione, con la differenza che Israele ha da sempre nei confronti dei palestinesi una superiorità bellica e militare, fattore che nell’attuale conflitto russo-ucraino è invece più incerto e instabile.

Sia la Russia che Israele stanno conducendo da tempo guerre di occupazione e annessione dei territori ucraini da un lato e dei territori palestinesi dall’altro. La Russia dal 2014 con la Crimea e il Donbass, e dal 2022 con il tentativo di invasione su grande scala dell’Ucraina. Israele con le sue varie guerre di espansione dal 1948 fino all’odierna distruzione di Gaza e la continua e progressiva occupazione della Cisgiordania.

Sia la Russia di Putin che Hamas che l’attuale governo israeliano usano la violenza per imporre le loro volontà al popolo avversario, massacrando la popolazione civile. La Russia con il suo tentativo di distruggere l’identità e la cultura ucraina, e quindi gli ucraini, Hamas con il suo progetto di eliminare Israele e gli ebrei, i governi israeliani con l’espulsione dei palestinesi dalle loro terre e la distruzione e punizione collettiva di un popolo.

Entrambe le guerre rischiano di terminare, grazie alla vittoria delle ragioni della forza sulle ragioni del diritto e della giustizia, con l’ulteriore espansione e controllo territoriale dell’Ucraina da parte della Russia e della Palestina da parte di Israele. 

E visto che pare sempre più difficile che i due conflitti terminino con una “pace giusta”, si potrebbe perlomeno provare a non essere troppo ipocriti e di non usare doppi standard morali, politici e legali, denunciando i crimini di guerra di tutte le parti coinvolte, e ribadendo con forza e senza discriminazione i principi di libertà e autodeterminazione di tutti i popoli aggrediti e oppressi.

Diritti degli israeliani, diritti dei palestinesi

(da laRegione del 24 novembre 2023) Leggi anche qui.


Due popoli, Israele e Palestina, entrambi con il diritto di esistere
e di autodeterminarsi, di vivere in pace e sicurezza tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo.

Altrimenti, quale sarebbe l’alternativa? 

L’unica altra via d’uscita rischia di essere la guerra, la violenza e l’odio a oltranza, la distruzione, lo sradicamento e l’espulsione del popolo avversario, in nome del principio che tra il fiume e il mare non debba che esistere un popolo, o quello israeliano, o quello palestinese. 

Il dramma è che molti palestinesi e molti israeliani paiano condividere un reciproco fondamentalismo, opposto ma speculare, un estremismo nazionalista e/o religioso che crede che il proprio popolo avrebbe un diritto naturale ed esclusivo di esistere su quella terra. 

Da un lato il fondamentalismo di Hamas e del radicalismo islamico, che ai tempi fu anche del nazionalismo arabo-palestinese, fondato sull’idea che solo quando gli ebrei se ne saranno andati ci potrà essere libertà, giustizia e autodeterminazione per la Palestina. 

Dall’altro lato, il fondamentalismo religioso e di un certo nazionalismo ebraico, fondato sull’idea che solo quando gli arabi se ne saranno andati del tutto Israele potrà vivere finalmente in pace e sicurezza. E ai palestinesi che rimangono non si può che offrire una vita sotto assedio e occupazione, in quelle carceri a cielo aperto che sono la Cisgiordania e rischia di tornare a essere Gaza.

Agli opposti fondamentalismi, che vogliono imporre la loro supposta verità con la guerra e la violenza, si potrebbe rispondere con un atteggiamento laico, razionale e illuminista: i popoli e le nazioni sono delle costruzioni sociali, politiche e culturali, e non vi è alcun diritto originario, esclusivo, naturale per una comunità di risiedere su un determinato territorio. 

Ciò non significa negare i diritti storici e umani dei popoli e degli individui: il diritto di ogni persona di poter avere delle radici e una propria terra, dov’è nata e/o dalla quale proviene la sua famiglia, dove può esistere e svilupparsi la sua comunità politica e sociale di appartenenza.

All’interno del conflitto israelo-palestinese, questo presupporrebbe un reciproco riconoscimento, fondato su un principio di uguaglianza e sul rispetto dei diritti di ambo le parti, riconoscimento volto a contrastare, limitare e criticare qualsiasi doppio standard politico e morale. 

Altrimenti rischia di esservi solo ipocrisia, perché dietro a dei supposti e conclamati diritti universali non si nasconderebbero che dei diritti e interessi particolari, da imporre a scapito dei diritti e degli interessi dei propri avversari.

La vita di un palestinese non vale né di più né di meno della vita di un israeliano. Bisognerebbe contrastare l’antisemitismo e l’odio contro gli ebrei quanto il razzismo e l’odio contro gli arabi e i musulmani. Il diritto alla libertà, all’autonomia, alla sicurezza di un israeliano vale quanto il diritto alla libertà, all’autonomia, alla sicurezza di un palestinese. In nome del diritto dell’esistenza di un popolo, non si può sacrificare il diritto alla vita e all’esistenza di un altro popolo. 

Si dia spazio, allora, nell’opinione pubblica, alle voci, alle storie e alle tragedie sia degli israeliani che dei palestinesi. Si condannino con la giusta misura i crimini di ambo le parti. Si dica a Israele che ha il diritto di vivere in pace e sicurezza, chiedendo ai palestinesi di riconoscere il suo diritto di esistenza.

Contemporaneamente, si chieda a Israele di riconoscere il diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, di bloccare il massacro a Gaza e di pensare a un piano per tornare ai confini territoriali del 1967, iniziando a smantellare gli insediamenti coloniali illegali in Cisgiordania.

Altrimenti, continueremo a essere degli spettatori che, dagli spalti di un’arena, si indignano perlopiù per le sofferenze e le morti del proprio popolo amico, mentre giustificano, nascondono o minimizzano le sofferenze e le morti dei propri nemici, in uno spettacolo di orrore senza fine nel quale le vite degli altri non sono che delle vittime sacrificali del proprio accecamento ideologico. Mors tua, vita mea.

“L’amore per la patria tra nazionalismo e diritti universali”

Cinque digressioni radiofoniche attorno al tema
“L’amore per la patria tra nazionalismo e diritti universali”,
andate in onda a luglio 2023 sulla Rete Due della RSI,
all'interno del ciclo "L'amore e altre deviazioni..."



“Noi umani non tendiamo forse a solidarizzare innanzitutto con chi percepiamo essere più vicino e simile a noi?
Non proviamo forse più empatia per i nostri simili, famigliari, amici, connazionali,
per coloro che fanno parte di un’identità collettiva al quale anche noi sentiamo e crediamo di appartenere?"



“Per il nazionalismo
i popoli avrebbero il diritto naturale di esistere e vivere su un determinato territorio, come se la nostra madre Patria ci avesse fatto nascere, non per caso,
su un territorio che naturalmente e necessariamente ci appartiene, madre Patria alla quale possiamo tributare il nostro amore."




“Forse come europei ce n’eravamo dimenticati,
ma è anche nel nome dell’amore per la propria nazione che ci si è sacrificati andando a combattere o mandando a combattere i nostri figli, contro i tedeschi e i francesi, in nome del popolo tedesco e francese."




“È giusto che i diritti vengano attribuiti innanzitutto, per non dire esclusivamente, a coloro che appartengono alla nostra nazione?
I diritti umani fondamentali non dovrebbero essere concessi ad ogni individuo?"



“Su cosa si fonda l’identità nazionale svizzera, il nostro comune senso di appartenenza, l’amore per la nostra Patria?
La Svizzera vive all’interno di una contraddizione, tra i suoi principi costituzionali descritti come universali e il suo credersi un Sonderfall, una nazione diversa da tutte le altre."



martedì 2 maggio 2023

Quale giustizia alla fine della guerra?

(da laRegione del 30 marzo 2023) Leggi anche qui.

La guerra di difesa voluta dal popolo ucraino per resistere contro l’aggressione russa può
essere pensata come giusta, sia da un punto di vista etico che secondo il diritto internazionale. Giustificabile è anche l’aiuto politico, economico e militare occidentale in nome di principi quali libertà, democrazia e autodeterminazione dei popoli.

Significa però questo sostenere ad oltranza la guerra di difesa e resistenza, costi quel che costi, usando la guerra per fare giustizia? Dove si può mettere il limite e come si pensa di poter fare la pace, una pace che non sia una “pace imperiale” voluta dalla Russia, che significherebbe la resa del popolo ucraino e la sua distruzione sia simbolica che materiale?

Secondo la “teoria delle guerre giuste e ingiuste” del filosofo Michael Walzer non esistono solo lo “Jus ad bellum”, la giusta guerra di difesa dell’Ucraina contro il crimine d’aggressione della Russia; e lo “Jus in bello”, che richiederebbe la persecuzione dei crimini commessi sul campo di battaglia (uccisioni di massa di civili, torture, stupri, deportazioni di bambini…) a partire dal diritto internazionale umanitario. Esiste anche lo “Jus post bellum”, che rimanda agli obiettivi della guerra e alle condizioni secondo le quali si pensa di poter arrivare a una pace che sia la più giusta possibile per l’aggredito.

Il problema però è che in assenza di un “Terzo sopra le parti” (per usare la terminologia di Norberto Bobbio), in grado di garantire la giustizia internazionale in modo equo e imparziale perseguendo i crimini di guerra, fino a che punto si potrà fare giustizia in nome della legge? Qualsiasi iniziativa concreta rischia di essere bloccata da un veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Sembra che non rimangano che le armi per fare giustizia.

Per riprendere il pensiero di Max Weber, non esiste solo una “Etica dei principi” fondata sugli ideali di giustizia, ma anche una “Etica della responsabilità” che si interroga fino che punto, come e con quali conseguenze questi ideali possano essere realizzati nella pratica da parte della politica.

Forse il massimo dell’ideale di giustizia che si potrebbe sperare di realizzare con la guerra sarebbe la ritirata dell’esercito russo dal territorio ucraino, la caduta del regime putiniano e l’instaurarsi di un nuovo governo, disposto a consegnare Putin e gli altri criminali del vecchio regime a una corte di giustizia internazionale.

Il minimo di giustizia che si potrebbe magari accettare sarebbe invece la cessione di una parte dei territori all’invasore, sacrificando l’integrità territoriale dell’Ucraina ma garantendo al Paese libertà, autonomia e sicurezza. Seguendo una recente riflessione di Jürgen Habermas, si potrebbe terminare la guerra con una vittoria fondata su una pace giusta per il popolo ucraino, oppure fare in modo che né l’Ucraina né la Russia “perdano la guerra”, soluzione che richiederebbe che gli ucraini e i russi accettino una qualche forma di compromesso e mediazione.

Può essere sicuramente vero, come sostengono molti (autentici) pacifisti, che fare giustizia con le armi in nome dei nostri principi può avere come conseguenza una guerra che dura ancora anni, con tutto il male che ciò comporta, senza alcuna garanzia che si arrivi a una pace giusta. D’altra parte, però, smettere di sostenere anche militarmente l’Ucraina rischia di avere conseguenze anche peggiori: una “pace imperiale” russa che distruggerebbe il Paese e condurrebbe, qualora gli ucraini non fossero più in grado di resistere, a un aumento esponenziale dei crimini di guerra contro la popolazione civile.

Il problema è a chi spetta la responsabilità politica di questa decisione, se e qualora Putin si dimostrasse realmente disponibile a una trattativa: principalmente agli ucraini e al loro governo? O principalmente all’Occidente che ha deciso di sostenere la loro guerra? O sarebbe auspicabile una qualche forma di mediazione tra Zelensky, il suo popolo, i nostri governi occidentali e le nostre opinioni pubbliche?

È giusto che si intimi a Zelensky e al suo popolo di cedere la loro integrità territoriale, quando sono le ucraine e gli ucraini ad aver sacrificato le loro vite e i loro corpi in nome dei loro ideali? Non sarebbe questo un atteggiamento dal sapore vagamente “paternalista” e “neocoloniale”, fondato sull’idea che alla fine siamo noi occidentali a poter decidere sul loro destino?

Ma perché lo si farebbe? Per una pace che sia la più giusta possibile per il popolo ucraino o in nome di una “pace nostra”, che esprime perlopiù il nostro desiderio di essere finalmente “lasciati in pace” e poter pensare ad altro? Putin rimane in attesa che si rivelino le debolezze delle nostre democrazie, in quanto troppo dipendenti dagli umori delle opinioni pubbliche, per poter dimostrare al mondo la superiorità delle autocrazie sul campo di battaglia.

Tra gli ideali e la realtà. Guerre imperiali e diritti dei popoli.

(da laRegione del 27 febbraio 2023) Leggi anche qui.


La guerra di difesa e resistenza da parte della popolazione ucraina
contro l’aggressione russa, in nome di principi quali libertà, democrazia e autodeterminazione dei popoli, può essere pensata come giusta, anche perché sono gli stessi ucraini a decidere, in primis, di imbracciare le armi e combattere. 

Se si parte dal presupposto che qualsiasi guerra d’aggressione sia sbagliata e se fosse giusto, ad esempio, condannare l’invasione dell’Iraq del 2003 da parte degli Stati Uniti, allora bisognerebbe per coerenza condannare anche l’invasione russa del 2022.

Una posizione di "equidistanza pacifista", che sostiene che entrambe le parti in conflitto avrebbero le loro colpe e responsabilità, usando ad esempio l’argomentazione che sarebbe stato l’allargamento della Nato a Est ad aver causato l’aggressione, nega invece il diritto all’autodifesa sancito dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. 

Ma non solo: questa argomentazione rischia di avere come conseguenza, voluta o meno, la giustificazione del principio della "guerra di difesa preventiva". Qualsiasi Paese che si sente, a torto o a ragione, minacciato potrebbe così invocare a suo favore le ragioni per una guerra di aggressione. Sarebbero così state giustificate ad esempio le guerre volute da George W. Bush così come sarebbero giustificabili gli attacchi di Erdogan contro il Kurdistan.

Il sostegno morale, politico, economico e/o militare alla guerra di difesa del popolo ucraino non implica quindi incoerenze? Perché ad esempio non aiutiamo i curdi come gli ucraini in nome del principio di autodeterminazione? E se l’imperialismo occidentale ha usato la guerra per provare a esportare la democrazia nel mondo, in nome dei suoi interessi e per imporre la sua egemonia, perché non potrebbe farlo dal loro punto di vista anche la Russia, o la Cina con Taiwan. 

Il problema è che tra gli ideali e le realtà, tra il dover essere e come il mondo è veramente, non possono non esservi discrepanza e incoerenza. In un mondo ideale bisognerebbe ad esempio sostenere i curdi come facciamo con gli ucraini. La questione è se questo, all’interno dei rapporti di forza attuali, sia realisticamente fattibile, e non solo idealmente auspicabile.

Il fatto però che non sosteniamo in maniera equa tutti i popoli aggrediti al mondo è una ragione sufficiente per non aiutare il popolo ucraino? O tutti o nessuno e quindi nessuno? Per analogia, sarebbe come sostenere che di fronte a più persone che necessitano di essere soccorse, protette, difese, visto che non possiamo salvarle tutte non ne aiutiamo nessuna solo perché non riusciamo a garantire parità di trattamento. 

La solidarietà, a livello globale e internazionale, allo stato attuale non può essere equa. Ci si muove per "cerchi concentrici": a livello politico si è più solidali tra cittadini che vivono nello stesso comune di residenza, poi tra chi vive nello stesso cantone, nello stesso Stato-nazione, e così via. Il territorio e la geografia contano. Una guerra di aggressione da parte di un’autocrazia in un’Europa democratica riveste un’importanza maggiore per un europeo che non una guerra d’aggressione in un altro continente.

Invece di nascondere le proprie incoerenze dietro una supposta superiorità morale, l’Occidente dovrebbe invece ammetterle e tentare di superarle. Tra i principi universali e la nostra concreta realtà geografica, storica, culturale e politica non può non esservi discrepanza. Ciò non dovrebbe però essere una ragione per non fare nulla, ma per fare il possibile, nella speranza e con l’idea di poter costruire in futuro un mondo sempre più equo e inclusivo nel quale tutti i popoli aggrediti e oppressi possano ricevere, se vogliono, aiuto e solidarietà.

E l’imperialismo occidentale? Perché la Russia non potrebbe fare come gli Usa in Iraq nel 2003? L’hanno fatto gli americani, quindi perché non possono farlo anche altre potenze imperiali? Anche qui bisognerebbe iniziare ad ammettere che (quasi) tutte le guerre combattute dagli Usa erano sbagliate, dei tragici errori per non dire dei crimini. Vi sono state guerre d’invasione contrarie al diritto internazionale, la democrazia non può essere esportata con le armi e la guerra di difesa preventiva non può mai essere autorizzata, allora come oggi.

O si prova a costruire un mondo di "pace perpetua" multilaterale nel quale la guerra non può mai essere accettata per risolvere le controversie tra Stati e/o per affermare volontà di potenza imperiali. 

Oppure non ci rimane che una cinica realpolitik la quale, in nome di una pace senza giustizia, nega il diritto all’autodeterminazione dei popoli e chiede loro la resa di fronte a quegli imperialismi che, alla forza della legge, preferiscono la legge della forza per imporre la loro egemonia e spartirsi il dominio del mondo.


giovedì 2 febbraio 2023

La vita ad ogni costo. Limiti e meriti del pacifismo

(da laRegione del 1 febbraio 2023) Leggi anche qui.


Non esiste un unico modo di pensare e vivere il pacifismo. 
Vi sono persone che fanno del pacifismo una filosofia di vita, altre un metodo per lottare contro l’oppressione. 
Vi è chi, in nome della pace, sostiene l’equidistanza tra Russia e Ucraina perché tra liberaldemocrazie e autocrazie non vi sarebbero poi differenze così grandi. 
Poi vi è chi per"pace" intende perlopiù il proprio opportunismo e interesse personale e/o nazionale.

Esiste innanzitutto un "pacifismo assoluto" che ripudia sempre e a priori qualsiasi reazione violenta. Questa forma di pacifismo è in primis una filosofia di vita, un atteggiamento e una credenza spirituale che in quanto tale andrebbe rispettata.

Un pacifismo assoluto può essere vissuto in maniera unicamente passiva: di fronte ad un’aggressione non si fa nulla, se non porgere l’altra guancia e accettare la resa per rimanere fedeli alla propria filosofia. Può essere però vissuto anche in maniera attiva: di fronte ad un’aggressione si farà di tutto per reagire mettendo in atto strategie di resistenza non violenta quali disobbedienze civili, scioperi, manifestazioni, boicottaggi…, senza però mai abbracciare le armi.

La resistenza pacifista può risultare giusta ed efficace per contrastare un potere che, di fronte a strategie non violente, non risponde con una repressione brutale, violenta ed omicida. La Russia di Putin non pare però paragonabile al colonialismo inglese contro cui ha lottato Gandhi, e neppure al razzismo a stelle e strisce contro cui è insorto Martin Luther King. I massacri contro la popolazione civile commessi dall’esercito russo non paiono lasciare spazio a molti dubbi.

A quasi un anno dall’inizio dell’aggressione russa credo si possa affermare con ragionevole certezza che, se gli ucraini non avessero risposto con la violenza delle armi, ora a Kiev regnerebbe un despota voluto da Putin, mentre le libertà di espressione e critica sarebbero represse. Senza l’invio di armi da parte dei Paesi occidentali il risultato sarebbe con ogni probabilità il medesimo. L’Ucraina come la Bielorussia.

Chi volesse sostenere fino in fondo la posizione pacifista assoluta dovrebbe quindi accettare una valutazione morale di fondo: tra l’imbracciare le armi per la difesa della libertà, della democrazia, dell’autodeterminazione dei popoli e la vita sotto la dittatura, è preferibile la seconda opzione. Meglio una pace senza giustizia che una lotta armata. La vita ad ogni costo e la non violenza sono valori più importanti della libertà.

A conclusioni analoghe pare giungere chi, in Occidente, non credendo nel modello etico e politico liberaldemocratico, rimane equidistante. Secondo costoro tra la vita in Europa, negli Usa, in Russia e in Cina non vi sarebbero grandi differenze, dimenticandosi forse che sono liberi di esprimere il loro dissenso proprio grazie a quel modello di convivenza civile che sarebbero disposti a ripudiare.

Vi è però anche un’altra forma di pacifismo, che non ha nulla a che fare con il pacifismo come filosofia di vita e neppure con l’equidistanza tra liberaldemocrazie e autocrazie. Lo si potrebbe chiamare "pacifismo opportunista", posizione assunta da chi, non vivendo in Ucraina e non essendo ucraino, quando parla di pace intende perlopiù il suo quieto vivere perché, in fondo, non sono affari suoi. Non è forse questa anche una certa maniera di intendere la neutralità svizzera?

Si può quindi liquidare il valore ultimo della pace per giustificare una guerra ad oltranza? Non proprio. Il pacifismo assoluto ci ricorda continuamente la tragedia che è ogni guerra sul campo di battaglia. Intima che si giunga il prima possibile ad una pace, o perlomeno ad una tregua, intavolando un dialogo ed una mediazione con il nemico. Ciò che conta ed ha priorità è bloccare il massacro.

Se la resa e la vita sotto la dittatura non sono un’opzione, allora può emergere un’ultima forma di pacifismo, critico, che crede nel valore ultimo e prioritario della pace ma anche nella difesa della libertà e della democrazia. Un pacifismo relativo e non assoluto sostiene che solo in casi eccezionali, in caso non vi fossero alternative, di fronte ad un aggressore che non è disposto al dialogo e giustifica l’uso della violenza per affermare il suo dominio, sia moralmente necessario resistere anche con le armi. Armarsi e armare affinché si giunga ad una pace la più giusta possibile per l’aggredito.

E del rischio che il conflitto diventi mondiale, magari anche nucleare? In nome della possibilità eventuale di un male maggiore, si accetterebbe la realtà concreta del male minore, la distruzione di un popolo e delle sue libertà. Questa posizione ha comunque il vantaggio di permetterci di ritornare alla pace del nostro quieto vivere, sempre che un’autocrazia dotata di armi nucleari non colga la palla al balzo per iniziare una nuova aggressione.

mercoledì 25 maggio 2022

Guerre, profughi e ipocrisie occidentali

(da laRegione del 18 maggio 2022) Leggi anche qui.

Una profuga siriana chiede come mai vi siano queste differenze nell’accoglienza dei profughi scappati dalla guerra in Siria da quelli che fuggono dall’Ucraina. Una persona originaria dell’Eritrea chiede perché delle guerre in Africa nessuno parla mai. Una rifugiata afgana si chiede se il sangue dei bambini afgani valga di meno di quello dei bambini ucraini. Si tratta interrogativi reali di persone che abitano in Ticino, raccolti nell’ambito dell’accoglienza dei profughi nel Cantone. 

La solidarietà, sia nei confronti delle tragedie delle guerre che dei suoi profughi, è a geometria variabile. Dei conflitti e delle tragedie extraeuropee ci importa e ci importava molto meno, e mentre l’Europa accoglie milioni di profughi ucraini molti rifugiati extraeuropei vengono respinti con forza e lasciati morire sui confini del continente. La legge e i diritti umani non sono uguali per tutti.

Come spiegare queste disparità di trattamento? Il sostegno occidentale alla guerra di difesa del popolo ucraino potrebbe essere giustificato dal fatto che il conflitto questa volta è in Europa e che è un attacco alle “nostre democrazie”. L’accoglienza dei profughi ucraini sarebbe inoltre un nostro dovere per via della vicinanza geografica, ma anche perché sono europei ed occidentali come noi. 

Tendiamo a provare più empatia nei confronti di coloro che sentiamo essere più simili e vicini a noi. Questa solidarietà non ha però un fondamento “naturale”, non vi sono differenze biologiche né di sangue all’interno della specie umana e l’Africa non è poi molto più lontana dell’Ucraina. Si basa invece su una costruzione sociale, politica e culturale che stabilisce i confini tra un “Noi” e un “Loro”, tra “noi europei e occidentali” e gli “altri”, costruzione che influenza le nostre percezioni, le nostre emozioni e i nostri giudizi morali. 

È più facile provare empatia per degli occidentali che in Europa combattono e fuggono per “la giusta causa” della libertà e della democrazia, che non nei confronti di tragedie belliche africane e orientali e dei loro profughi, questo anche qualora fuggissero da guerre di aggressione e dittature repressive e violente, magari pure volute e sostenute dall’Occidente qualora ci convenga. Non c’è mai stata molta disponibilità ad ospitare nelle nostre case i profughi non occidentali.

Chi vive e viene dalla “parte del Noi” ha così più possibilità di ottenere solidarietà, sostegno e diritti, mentre agli “altri”, a chi vive e proviene dalla “parte del Loro”, la solidarietà, il sostegno e i diritti più fondamentali rischiano invece di essere negati. 

Ma l’Occidente non dovrebbe essere la patria delle libertà individuali e collettive e dei diritti umani, valori che in quanto tali dovrebbero valere per ogni persona e per ogni popolo? Non è anche per questo, ci dicono, che siamo in guerra? 

Di fronte allo scarto tra ideale e realtà non può non esservi ipocrisia. La realtà è sempre altra da come vorremmo che fosse, da come ce la raccontano e da come ci piace raccontarla a noi stessi per sentirci a posto con le nostre (false) coscienze collettive e individuali. 

A questa ipocrisia si potrebbe però reagire prendendo coscienza dei limiti della nostra visione del mondo, tentando di superare e risolvere perlomeno parzialmente le nostre contraddizioni. Se siamo riusciti ad essere solidali nei confronti della tragedia ucraina e dei suoi profughi, perché non provare ad estendere progressivamente questa volontà di aiuto e sostegno anche alle tragedie e ai profughi non occidentali?

Il rischio però è che si vada in tutt’altra direzione, rinchiusi nella nostra rappresentazione e narrazione etnocentrica del conflitto ucraino che tende a nascondere e non affrontare quasi mai le nostre contraddizioni.

Non ci si chiede ad esempio spesso come ciò che sta avvenendo in Europa venga visto e percepito dai non occidentali, si tende a nascondere il fatto che una parte consistente del mondo rimane perlopiù neutrale di fronte al conflitto ucraino, mentre si stanno rinforzando e creando nuove alleanze geopolitiche, economiche e strategiche tra Russia, Cina e molti altri Paesi asiatici e africani.

Come chiedere alle persone non occidentali sostegno alla “nostra guerra” e ai “nostri profughi”, se il nostro sostegno alle “loro guerre” e ai “loro profughi” pare segnato perlopiù dall’indifferenza?

Un universalismo dei diritti umani che non prende coscienza dei suoi limiti e delle sue ipocrisie rischia di contribuire alla creazione di un mondo nel quale il fossato tra “Noi” e “Loro” diventerà ancora più profondo e insormontabile. 

Vivremo così in un’Europa rinchiusa ancora di più all’interno dei suoi muri geografici, culturali, politici e identitari, volta a difendersi da quegli “altri” che provengono da Oriente e da Sud vissuti e percepiti sempre di più come “diversi da noi”, per i quali le nostre belle parole sui diritti umani non sono che un modo per nascondere i nostri interessi e diritti particolari e il nostro razzismo. Il sangue di una persona europea, bianca, cristiana e occidentale varrà così ancora di più del sangue di un africano, orientale, arabo e musulmano.