martedì 2 maggio 2023

Quale giustizia alla fine della guerra?

(da laRegione del 30 marzo 2023) Leggi anche qui.

La guerra di difesa voluta dal popolo ucraino per resistere contro l’aggressione russa può
essere pensata come giusta, sia da un punto di vista etico che secondo il diritto internazionale. Giustificabile è anche l’aiuto politico, economico e militare occidentale in nome di principi quali libertà, democrazia e autodeterminazione dei popoli.

Significa però questo sostenere ad oltranza la guerra di difesa e resistenza, costi quel che costi, usando la guerra per fare giustizia? Dove si può mettere il limite e come si pensa di poter fare la pace, una pace che non sia una “pace imperiale” voluta dalla Russia, che significherebbe la resa del popolo ucraino e la sua distruzione sia simbolica che materiale?

Secondo la “teoria delle guerre giuste e ingiuste” del filosofo Michael Walzer non esistono solo lo “Jus ad bellum”, la giusta guerra di difesa dell’Ucraina contro il crimine d’aggressione della Russia; e lo “Jus in bello”, che richiederebbe la persecuzione dei crimini commessi sul campo di battaglia (uccisioni di massa di civili, torture, stupri, deportazioni di bambini…) a partire dal diritto internazionale umanitario. Esiste anche lo “Jus post bellum”, che rimanda agli obiettivi della guerra e alle condizioni secondo le quali si pensa di poter arrivare a una pace che sia la più giusta possibile per l’aggredito.

Il problema però è che in assenza di un “Terzo sopra le parti” (per usare la terminologia di Norberto Bobbio), in grado di garantire la giustizia internazionale in modo equo e imparziale perseguendo i crimini di guerra, fino a che punto si potrà fare giustizia in nome della legge? Qualsiasi iniziativa concreta rischia di essere bloccata da un veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Sembra che non rimangano che le armi per fare giustizia.

Per riprendere il pensiero di Max Weber, non esiste solo una “Etica dei principi” fondata sugli ideali di giustizia, ma anche una “Etica della responsabilità” che si interroga fino che punto, come e con quali conseguenze questi ideali possano essere realizzati nella pratica da parte della politica.

Forse il massimo dell’ideale di giustizia che si potrebbe sperare di realizzare con la guerra sarebbe la ritirata dell’esercito russo dal territorio ucraino, la caduta del regime putiniano e l’instaurarsi di un nuovo governo, disposto a consegnare Putin e gli altri criminali del vecchio regime a una corte di giustizia internazionale.

Il minimo di giustizia che si potrebbe magari accettare sarebbe invece la cessione di una parte dei territori all’invasore, sacrificando l’integrità territoriale dell’Ucraina ma garantendo al Paese libertà, autonomia e sicurezza. Seguendo una recente riflessione di Jürgen Habermas, si potrebbe terminare la guerra con una vittoria fondata su una pace giusta per il popolo ucraino, oppure fare in modo che né l’Ucraina né la Russia “perdano la guerra”, soluzione che richiederebbe che gli ucraini e i russi accettino una qualche forma di compromesso e mediazione.

Può essere sicuramente vero, come sostengono molti (autentici) pacifisti, che fare giustizia con le armi in nome dei nostri principi può avere come conseguenza una guerra che dura ancora anni, con tutto il male che ciò comporta, senza alcuna garanzia che si arrivi a una pace giusta. D’altra parte, però, smettere di sostenere anche militarmente l’Ucraina rischia di avere conseguenze anche peggiori: una “pace imperiale” russa che distruggerebbe il Paese e condurrebbe, qualora gli ucraini non fossero più in grado di resistere, a un aumento esponenziale dei crimini di guerra contro la popolazione civile.

Il problema è a chi spetta la responsabilità politica di questa decisione, se e qualora Putin si dimostrasse realmente disponibile a una trattativa: principalmente agli ucraini e al loro governo? O principalmente all’Occidente che ha deciso di sostenere la loro guerra? O sarebbe auspicabile una qualche forma di mediazione tra Zelensky, il suo popolo, i nostri governi occidentali e le nostre opinioni pubbliche?

È giusto che si intimi a Zelensky e al suo popolo di cedere la loro integrità territoriale, quando sono le ucraine e gli ucraini ad aver sacrificato le loro vite e i loro corpi in nome dei loro ideali? Non sarebbe questo un atteggiamento dal sapore vagamente “paternalista” e “neocoloniale”, fondato sull’idea che alla fine siamo noi occidentali a poter decidere sul loro destino?

Ma perché lo si farebbe? Per una pace che sia la più giusta possibile per il popolo ucraino o in nome di una “pace nostra”, che esprime perlopiù il nostro desiderio di essere finalmente “lasciati in pace” e poter pensare ad altro? Putin rimane in attesa che si rivelino le debolezze delle nostre democrazie, in quanto troppo dipendenti dagli umori delle opinioni pubbliche, per poter dimostrare al mondo la superiorità delle autocrazie sul campo di battaglia.

Tra gli ideali e la realtà. Guerre imperiali e diritti dei popoli.

(da laRegione del 27 febbraio 2023) Leggi anche qui.


La guerra di difesa e resistenza da parte della popolazione ucraina
contro l’aggressione russa, in nome di principi quali libertà, democrazia e autodeterminazione dei popoli, può essere pensata come giusta, anche perché sono gli stessi ucraini a decidere, in primis, di imbracciare le armi e combattere. 

Se si parte dal presupposto che qualsiasi guerra d’aggressione sia sbagliata e se fosse giusto, ad esempio, condannare l’invasione dell’Iraq del 2003 da parte degli Stati Uniti, allora bisognerebbe per coerenza condannare anche l’invasione russa del 2022.

Una posizione di "equidistanza pacifista", che sostiene che entrambe le parti in conflitto avrebbero le loro colpe e responsabilità, usando ad esempio l’argomentazione che sarebbe stato l’allargamento della Nato a Est ad aver causato l’aggressione, nega invece il diritto all’autodifesa sancito dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. 

Ma non solo: questa argomentazione rischia di avere come conseguenza, voluta o meno, la giustificazione del principio della "guerra di difesa preventiva". Qualsiasi Paese che si sente, a torto o a ragione, minacciato potrebbe così invocare a suo favore le ragioni per una guerra di aggressione. Sarebbero così state giustificate ad esempio le guerre volute da George W. Bush così come sarebbero giustificabili gli attacchi di Erdogan contro il Kurdistan.

Il sostegno morale, politico, economico e/o militare alla guerra di difesa del popolo ucraino non implica quindi incoerenze? Perché ad esempio non aiutiamo i curdi come gli ucraini in nome del principio di autodeterminazione? E se l’imperialismo occidentale ha usato la guerra per provare a esportare la democrazia nel mondo, in nome dei suoi interessi e per imporre la sua egemonia, perché non potrebbe farlo dal loro punto di vista anche la Russia, o la Cina con Taiwan. 

Il problema è che tra gli ideali e le realtà, tra il dover essere e come il mondo è veramente, non possono non esservi discrepanza e incoerenza. In un mondo ideale bisognerebbe ad esempio sostenere i curdi come facciamo con gli ucraini. La questione è se questo, all’interno dei rapporti di forza attuali, sia realisticamente fattibile, e non solo idealmente auspicabile.

Il fatto però che non sosteniamo in maniera equa tutti i popoli aggrediti al mondo è una ragione sufficiente per non aiutare il popolo ucraino? O tutti o nessuno e quindi nessuno? Per analogia, sarebbe come sostenere che di fronte a più persone che necessitano di essere soccorse, protette, difese, visto che non possiamo salvarle tutte non ne aiutiamo nessuna solo perché non riusciamo a garantire parità di trattamento. 

La solidarietà, a livello globale e internazionale, allo stato attuale non può essere equa. Ci si muove per "cerchi concentrici": a livello politico si è più solidali tra cittadini che vivono nello stesso comune di residenza, poi tra chi vive nello stesso cantone, nello stesso Stato-nazione, e così via. Il territorio e la geografia contano. Una guerra di aggressione da parte di un’autocrazia in un’Europa democratica riveste un’importanza maggiore per un europeo che non una guerra d’aggressione in un altro continente.

Invece di nascondere le proprie incoerenze dietro una supposta superiorità morale, l’Occidente dovrebbe invece ammetterle e tentare di superarle. Tra i principi universali e la nostra concreta realtà geografica, storica, culturale e politica non può non esservi discrepanza. Ciò non dovrebbe però essere una ragione per non fare nulla, ma per fare il possibile, nella speranza e con l’idea di poter costruire in futuro un mondo sempre più equo e inclusivo nel quale tutti i popoli aggrediti e oppressi possano ricevere, se vogliono, aiuto e solidarietà.

E l’imperialismo occidentale? Perché la Russia non potrebbe fare come gli Usa in Iraq nel 2003? L’hanno fatto gli americani, quindi perché non possono farlo anche altre potenze imperiali? Anche qui bisognerebbe iniziare ad ammettere che (quasi) tutte le guerre combattute dagli Usa erano sbagliate, dei tragici errori per non dire dei crimini. Vi sono state guerre d’invasione contrarie al diritto internazionale, la democrazia non può essere esportata con le armi e la guerra di difesa preventiva non può mai essere autorizzata, allora come oggi.

O si prova a costruire un mondo di "pace perpetua" multilaterale nel quale la guerra non può mai essere accettata per risolvere le controversie tra Stati e/o per affermare volontà di potenza imperiali. 

Oppure non ci rimane che una cinica realpolitik la quale, in nome di una pace senza giustizia, nega il diritto all’autodeterminazione dei popoli e chiede loro la resa di fronte a quegli imperialismi che, alla forza della legge, preferiscono la legge della forza per imporre la loro egemonia e spartirsi il dominio del mondo.


giovedì 2 febbraio 2023

La vita ad ogni costo. Limiti e meriti del pacifismo

(da laRegione del 1 febbraio 2023) Leggi anche qui.


Non esiste un unico modo di pensare e vivere il pacifismo. 
Vi sono persone che fanno del pacifismo una filosofia di vita, altre un metodo per lottare contro l’oppressione. 
Vi è chi, in nome della pace, sostiene l’equidistanza tra Russia e Ucraina perché tra liberaldemocrazie e autocrazie non vi sarebbero poi differenze così grandi. 
Poi vi è chi per"pace" intende perlopiù il proprio opportunismo e interesse personale e/o nazionale.

Esiste innanzitutto un "pacifismo assoluto" che ripudia sempre e a priori qualsiasi reazione violenta. Questa forma di pacifismo è in primis una filosofia di vita, un atteggiamento e una credenza spirituale che in quanto tale andrebbe rispettata.

Un pacifismo assoluto può essere vissuto in maniera unicamente passiva: di fronte ad un’aggressione non si fa nulla, se non porgere l’altra guancia e accettare la resa per rimanere fedeli alla propria filosofia. Può essere però vissuto anche in maniera attiva: di fronte ad un’aggressione si farà di tutto per reagire mettendo in atto strategie di resistenza non violenta quali disobbedienze civili, scioperi, manifestazioni, boicottaggi…, senza però mai abbracciare le armi.

La resistenza pacifista può risultare giusta ed efficace per contrastare un potere che, di fronte a strategie non violente, non risponde con una repressione brutale, violenta ed omicida. La Russia di Putin non pare però paragonabile al colonialismo inglese contro cui ha lottato Gandhi, e neppure al razzismo a stelle e strisce contro cui è insorto Martin Luther King. I massacri contro la popolazione civile commessi dall’esercito russo non paiono lasciare spazio a molti dubbi.

A quasi un anno dall’inizio dell’aggressione russa credo si possa affermare con ragionevole certezza che, se gli ucraini non avessero risposto con la violenza delle armi, ora a Kiev regnerebbe un despota voluto da Putin, mentre le libertà di espressione e critica sarebbero represse. Senza l’invio di armi da parte dei Paesi occidentali il risultato sarebbe con ogni probabilità il medesimo. L’Ucraina come la Bielorussia.

Chi volesse sostenere fino in fondo la posizione pacifista assoluta dovrebbe quindi accettare una valutazione morale di fondo: tra l’imbracciare le armi per la difesa della libertà, della democrazia, dell’autodeterminazione dei popoli e la vita sotto la dittatura, è preferibile la seconda opzione. Meglio una pace senza giustizia che una lotta armata. La vita ad ogni costo e la non violenza sono valori più importanti della libertà.

A conclusioni analoghe pare giungere chi, in Occidente, non credendo nel modello etico e politico liberaldemocratico, rimane equidistante. Secondo costoro tra la vita in Europa, negli Usa, in Russia e in Cina non vi sarebbero grandi differenze, dimenticandosi forse che sono liberi di esprimere il loro dissenso proprio grazie a quel modello di convivenza civile che sarebbero disposti a ripudiare.

Vi è però anche un’altra forma di pacifismo, che non ha nulla a che fare con il pacifismo come filosofia di vita e neppure con l’equidistanza tra liberaldemocrazie e autocrazie. Lo si potrebbe chiamare "pacifismo opportunista", posizione assunta da chi, non vivendo in Ucraina e non essendo ucraino, quando parla di pace intende perlopiù il suo quieto vivere perché, in fondo, non sono affari suoi. Non è forse questa anche una certa maniera di intendere la neutralità svizzera?

Si può quindi liquidare il valore ultimo della pace per giustificare una guerra ad oltranza? Non proprio. Il pacifismo assoluto ci ricorda continuamente la tragedia che è ogni guerra sul campo di battaglia. Intima che si giunga il prima possibile ad una pace, o perlomeno ad una tregua, intavolando un dialogo ed una mediazione con il nemico. Ciò che conta ed ha priorità è bloccare il massacro.

Se la resa e la vita sotto la dittatura non sono un’opzione, allora può emergere un’ultima forma di pacifismo, critico, che crede nel valore ultimo e prioritario della pace ma anche nella difesa della libertà e della democrazia. Un pacifismo relativo e non assoluto sostiene che solo in casi eccezionali, in caso non vi fossero alternative, di fronte ad un aggressore che non è disposto al dialogo e giustifica l’uso della violenza per affermare il suo dominio, sia moralmente necessario resistere anche con le armi. Armarsi e armare affinché si giunga ad una pace la più giusta possibile per l’aggredito.

E del rischio che il conflitto diventi mondiale, magari anche nucleare? In nome della possibilità eventuale di un male maggiore, si accetterebbe la realtà concreta del male minore, la distruzione di un popolo e delle sue libertà. Questa posizione ha comunque il vantaggio di permetterci di ritornare alla pace del nostro quieto vivere, sempre che un’autocrazia dotata di armi nucleari non colga la palla al balzo per iniziare una nuova aggressione.