La filosofia dell’antispecismo, che sostiene che non vi sia alcuna differenza sostanziale né superiorità morale tra gli esseri umani e le altre specie animali, è innanzitutto, prima che politica, una rivoluzione antropologica. Siamo una specie che per molto tempo, e ancora oggi, crede di essere unica e speciale rispetto alle altre forme di vita, nonostante il sapere scientifico abbia dimostrato da tempo l’illusorietà di queste pretese.
Ma le credenze sedimentate nella nostra storia culturale, anche se sono in contrasto con quanto sappiamo essere vero, sono difficili da modificare. Basti pensare quanto ancora oggi facciamo fatica ad accettare la verità dell’evoluzionismo darwiniano e il fatto che siamo parte della stessa famiglia biologica delle grandi scimmie. O quanto il fatto di mangiare carne come concausa del cambiamento climatico rimanga un problema perlopiù rimosso dal dibattito pubblico e confinato nel privato. O quanto la nostra mente abbia fatto fatica ad accettare che un impercettibile virus sia stato in grado di sconvolgere le nostre esistenze, arrivando a negare la realtà della natura e a costruire narrazioni complottistiche che rimettono al centro l’essere umano come causa di tutto.
Proprio per questo a livello politico se si volessero ottenere dei risultati per il benessere e i diritti degli animali sarebbe forse meglio essere meno radicali. Le trasformazioni antropologiche richiedono tempo. Non sarebbe stata preferibile ad esempio, e anche più giustificata eticamente, un’iniziativa volta non a vietare del tutto la sperimentazione sugli animali, ma a regolamentare al meglio questa sperimentazione, autorizzandola sempre e solo in caso di necessità e riducendo il più possibile la loro sofferenza?
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