(da laRegione del 4 ottobre 2014, Illustrazione di Sighanda)
Ma uccidere qualcuno è sempre sbagliato? E se l’assassinio fosse a fin
di bene? Non si intende qui l’assassinio per il bene di una collettività, a
scapito di un singolo individuo che non avrebbe più diritto a vivere, ad
esempio l’esecuzione di uno spietato tiranno dittatore o di un indegno pedofilo
stupratore recidivo. Si intende invece l’omicidio di un singolo individuo per
il suo bene e su sua richiesta, individuo che ha deciso liberamente di voler
morire e per il quale l’esistenza non ha più senso di continuare a durare.
Un essere umano, molto probabilmente sofferente, potrebbe chiedere il
mio aiuto per farla finita una volta per tutte. E quindi perché non assecondare
la sua decisione, sostenerlo nella sua scelta e assisterlo per garantirgli una
morte dignitosa? Sempre meglio che lasciarlo da solo in cima ad un autosilo a
dover decidere se buttarsi oppure no. Poi è chiaro, per me e per la mia
coscienza non sarà sicuramente facile ucciderlo. Vi è poi una differenza
sostanziale se sono io a dover fare il gesto che procura la morte o se questi
lo fa da sé.
È per questo che in Svizzera abbiamo optato per una soluzione più
consona e efficace: il suicidio assistito su richiesta. Soltanto chi per
“motivi egoistici” aiuta una persona a suicidarsi può essere punito penalmente.
Non posso quindi assolutamente farlo per un mio utile personale: non è il caso
di aiutare mia zia a suicidarsi per ottenerne l’eredità, ma neppure una persona
qualsiasi se questa mi paga bene per assisterla, così come non è il caso di sostenere
il suicidio di qualcuno che non mi sta particolarmente simpatico.
Sono invece libero di aiutare qualsivoglia persona a togliersi la vita
se lo faccio non per il mio di utile, ma per il suo. Ovviamente la persona deve
essere in grado di intendere e volere, capace di scegliere in autonomia se
togliersi la vita oppure no, libera di prendersi le sue di responsabilità.
Secondo la classica morale liberale, spetta a lei decidere se la sua esistenza
ha ancora senso, se la sua vita è ancora una “vita buona” e “di qualità”, degna
di essere vissuta, oppure no. Non posso mica imporre a qualcuno di continuare a
vivere se non lo vuole.
Ecco perché qui da noi avremmo la possibilità, di diritto, di
assecondare la scelta di un ragazzo ventenne per il quale la vita è tutta uno
schifo, di sostenere la decisione di una donna di mezza età che ha subito un
destino avverso, e di assistere una persona anziana per la quale l’esistenza ha
perso di qualità. L’importante è che non sia io a dare la spinta dall’autosilo,
a imboccare la pillola o a iniettare il veleno mortale. La scelta è sua, non
mia, io posso solo essere di sostegno.
Perché l’omicidio su richiesta è moralmente sbagliato? Il “cannibalismo
consensuale”.
Nei dibattiti etici viene spesso citato il seguente caso esemplare[1]:
nel 2001, nel paesino di Rothenburg, in Germania, un ingegnere informatico di
43 anni, Bernd-Jürgen Brandes, rispose all’annuncio su internet pubblicato dal
signor Arwin Meiwes, un tecnico di computer di 42 anni. Meiwes cercava una
persona disposta a farsi uccidere e in seguito farsi mangiare. All’annuncio
risposero circa duecento persone, ma pare che alla fine solo Brandes fu
mangiato. Meiwes lo uccise, ne sezionò il cadavere e infine mangiò circa venti
chili di carne della sua vittima consenziente, cucinati, pare, con olio d’oliva
e aglio.
Che cosa c’è di male in questi fatti realmente accaduti? Entrambi erano
adulti consenzienti, con un lavoro e una vita normali, giuridicamente giudicati
in grado di intendere e di volere. Entrambi sono liberi di disporre della
propria vita come gli pare e piace, fino a quando non fanno male a qualcuno, ed
è stato il caso? Entrambi hanno il diritto di perseguire il proprio utile e
decidere cosa per loro è una vita buona. Vi è stata addirittura una
massimizzazione dell’utile di due persone: grazie all’incontro della vittima
con il suo cannibale entrambi hanno dato un senso alla loro esistenza, e scelto
autonomamente la loro strada verso il benessere, il piacere, forse la felicità.
Di male, si potrebbe ribattere, c’è innanzitutto la questione del
“cannibalismo”. Le persone, nella nostra cultura, per la nostra tradizione,
nelle nostre abitudini acquisite da millenni non si mangiano. Vi è, almeno per
il momento, un limite morale che non si può infrangere. Ma al di là del
cannibalismo, c’è il problema dell’omicidio su richiesta. Mettiamo che Meiwes,
l’assassino, volesse solo aiutare Brandes a porre termine alla sua esistenza,
perché giudicata non più degna di essere vissuta, senza senso e segnata da una
sofferenza per lui inaccettabile. Perché avrebbe dovuto essere sbagliato
ucciderlo?
Qualcuno sosterrà che la vita umana è un valore in sé, che bisogna
proteggere, custodire e difendere, anche al di là e al di qua della nostra
libertà individuale; la nostra vita e il nostro corpo sarebbero un dono e non
del tutto una nostra proprietà, ma bisogna crederci. Qualcun altro dirà che
dobbiamo promuovere una cultura della vita e lottare contro la morte. Non
possiamo mica tollerare l’omicidio su richiesta, e neppure assecondare un
suicida: di fronte a qualcuno che vuole buttarsi dall’autosilo, mica diciamo “è
una tua libera scelta, la vita è tua, fallo!”. Faremmo di tutto per fermarlo
(si spera), magari pure bloccandolo contro la sua volontà. Non siamo
moralmente, umanamente, socialmente responsabili della vita e della morte di
chi vuole togliersi di mezzo?
Ma il suicidio assistito è moralmente lecito? La morte dei “sofferenti
inutili”.
Brandes, invece di farsi uccidere in Germania, avrebbe potuto intraprendere
un viaggio in Svizzera, dove qualcuno poteva legalmente aiutarlo ad uccidersi. Anziani
(e meno anziani) sofferenti, con malattie giudicate inguaribili, per i quali la
vita non ha più senso, vengono regolarmente sostenuti nella loro decisione di
togliersi la vita. Ma non solo: sempre di più anche persone senza una “malattia
del corpo”, ma comunque sofferenti, vengono e verranno assistite nel loro
percorso verso la libera scelta di morire, ponendo così termine ad esistenze
giudicate senza senso, di scarsa qualità, superflue. Basta che chi assista non
lo faccia per motivi egoistici.
La morale elvetica, iperliberale e iperutilitarista, ha optato per la
seguente soluzione di “compromesso”: nelle nostre strutture pubbliche
(ospedali, istituti di cura, ecc.) si lotta per la vita. Non vogliamo mica
prenderci la responsabilità di decidere insieme, come società (come pazienti, politici,
medici, parenti, personale di cura, amici, psicologici, ecc.), se per una
persona ha ancora senso vivere oppure no, e se la sofferenza è oramai diventata
insostenibile e irrecuperabile. L’eutanasia attiva diretta, tramite un gesto
quale un’iniezione che procura la morte, è infatti reato penale. Noi
promuoviamo la vita.
La morte in quanto tabù, in società contemporanee fondate sul mito di
Peter Pan e su una volontà di potenza che ci desidera eterni, viene invece relegata
nel privato. In questo processo di privatizzazione della morte, singoli e
associazioni private accorrono regolarmente per assecondare, sostenere e assistere
atti di suicidio, in nome della libertà del tutto individuale di decidere per
se stessi quando morire, e di poter decidere in solitudine a casa propria se la
propria vita abbia ancora senso, sia ancora “utile” e di “qualità”.
In Svizzera nel 2011 sono state aiutate 431 persone ad uccidersi. Di
queste, sicuramente molte erano affette da malattie inguaribili, e il suicidio
è stato probabilmente un sollievo per non dover patire le pene dell’inferno per
il poco tempo rimasto a disposizione. Diverse altre persone, invece, sono state
aiutate perché la loro malattia era “solo” esistenziale e sociale, e quindi
forse guaribile. Magari erano persone sole, non più inserite socialmente,
abbandonate a loro stesse, inutili per la società e quindi per se stesse,
diventate solo un costo e non più un benefiche per nessuno.
La questione non è (più) quella della liceità del suicidio in sé. Uno
può anche uccidersi, può essere anche un suo diritto. La questione è invece
come decidiamo, come società, di rispondere alla sua richiesta di “suicidio
sociale”. In Svizzera abbiamo deciso che pubblicamente, sotto la luce del sole,
la morte mica la promuoviamo. La lasciamo invece agire nel privato, al di fuori
della nostra coscienza pubblica e della nostra comune responsabilità. Un’efficace
strategia sociale, consapevole o inconsapevole che sia, per liberarci dei
sofferenti inutili.
[1] Si veda in particolare M. Sandel, Giustizia, Feltrinelli, Milano 2012, p.
86.
Suicidio assistito e eutanasia in Svizzera
Suicidio assistito e eutanasia in Svizzera
In Svizzera non si è mai voluto
creare una legge che regolamenti l’eutanasia e il suicidio assistito. Valgono
però le seguenti disposizioni:
- Eutanasia
attiva diretta: omicidio mirato a ridurre le sofferenze di un’altra
persona. Il medico o un terzo somministra intenzionalmente al paziente
un’iniezione che conduce direttamente alla morte.
Questa forma di eutanasia,
legalizzata ad esempio in Belgio e Olanda, è attualmente passibile di pena ai
sensi dell’articolo 111 (omicidio intenzionale), articolo 114 (omicidio su
richiesta) o articolo 113 (omicidio passionale) del Codice Penale.
- Assistenza al suicidio: soltanto chi
"per motivi egoistici" aiuta una persona al suicidio (ad es.
procurandogli una sostanza letale), è punito secondo l’articolo 115 del Codice
Penale con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria.
Nel
caso dell’aiuto al suicidio si tratta di procurare la sostanza letale al
paziente che auspica suicidarsi. Quest’ultimo poi la ingerisce senza l’aiuto di
terzi.
Organizzazioni come EXIT prestano assistenza al suicidio nell’ambito di
questa legge. Esse non sono punibili fintanto che non è possibile rimproverare
loro motivi egoistici.
A fine maggio l’assemblea di EXIT ha deciso di
assistere nel suicidio anche persone anziane senza “malattie mortali”.
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