lunedì 22 dicembre 2014
Appunti morali VIII.: Natale multiculturale
(da laRegione del 20 dicembre 2014)
Come vivere e festeggiare il Natale in una società sempre più multiculturale?
Indipendentemente da come uno sceglie di celebrarlo nella spazio intimo e privato di casa propria, dove ognuno è libero di fare ciò che vuole, la questione si pone all’interno dei nostri “spazi pubblici”: scuole, piazze e altri “edifici statali”. Per questi spazi si solleva infatti il problema del senso e del valore che una società vuole dare ai simboli della sua cultura. Vale anche per il Natale, ammesso e non concesso che sia un simbolo importante per la nostra società, e non unicamente una “questione privata”.
Perché il Natale rimane la festa più “celebrata” dalla nostra società, più del 1. Agosto, del Carnevale e della Pasqua? Per le nostre “radici cristiane” o per “Babbo Natale”? O non si mischiano e si integrano, forse, all’interno del “Simbolo del Natale”, molteplici influenze, significati e valori storico-culturali propri della nostra cultura, quali la “Natività”, la “Famiglia” e, non da ultimo, il “Consumismo”? A quali di questi “valori” dare quindi la priorità? E come festeggiarlo, di conseguenza, nei nostri “spazi pubblici”, all’interno dei quali si incontrano e convivono sempre più persone di altre religioni e di altre culture, ma anche, occorre dirlo, persone laiche, magari pure atee, per le quali la “Natività” ha un valore sempre più relativo?
“Costruire o non costruire il presepe all’asilo?”
Riflettiamo a partire dal seguente caso pratico: “in una scuola dell’infanzia comunale ticinese convivono bambine e bambini di varie culture e religioni: cristiani cattolici, cristiani protestanti, cristiani ortodossi, ebrei, musulmani sunniti e musulmani sciiti. Ci sono però anche molti bambini di famiglie non credenti, taluni neppure battezzati.
Che fare? Ha senso ed è il caso di costruire un presepe insieme ai bambini per celebrare la Natività? È opportuno nei confronti dei bambini delle altre religioni, per le quali Gesù è semmai un “profeta”, per non dire un “falso messia”, ma sicuramente non il “figlio di Dio”? Ma non sarebbe il caso, a questo punto, per parità di trattamento, di dare spazio anche alla celebrazione di riti musulmani ed ebraici? E nei confronti dei bambini non credenti, infine, è proprio opportuno che una scuola pubblica e laica trasmetta dei simboli e dei valori religiosi? Non sarebbe il caso di parlare solo di “Babbo Natale”?”.
Anche il “Natale” solleva la questione della “integrazione”, e ogni volta che discutiamo di “integrazione degli stranieri” nella nostra società, si pone innanzitutto una domanda: quali sono i valori che dovrebbero stare a fondamento della nostra società, che sia gli immigrati che gli “autoctoni” dovrebbero fare propri e rispetto ai quali dovrebbero “integrarsi”? Sono i valori della nostra tradizione “giudaico-cristiana”? Oppure sono i valori dell’altra fondamentale tradizione della nostra cultura, cioè quelli dell’Illuminismo, della laicità, della libertà di espressione e di religione, e dell’uguaglianza-parità di trattamento per tutti i cittadini?
È giusto difendere i simboli e i valori della nostra “cultura cristiana”, quando la maggioranza della popolazione autoctona risulta sempre più “laica”, per non dire “atea”, cristiana più di nome che non di fatto? Visto che le chiese sono sempre più vuote, mentre le “nuove cattedrali della cultura contemporanea”, i “Centri commerciali”, sono sempre più piene, non sarebbe il caso di espellere i simboli religiosi dagli spazi pubblici, e accontentarci del Babbo Natale promosso dalla tradizione imperante, quella dei valori del “Consumo” e dei simboli quali la “Coca Cola”?
In ogni caso, di fronte al problema se costruire o meno il presepe all’asilo, possono esserci tre posizioni che tendono ad escludersi a vicenda.
Posizione 1: “Costruiamo solo il presepe, in quanto simbolo unico della nostra cultura”.
Per questa prima posizione, decidiamo di costruire il presepe all’asilo perché crediamo sia un simbolo essenziale per la nostra cultura. Reputiamo opportuno che la nostra società trasmetta quei valori religiosi che vogliamo stiano a fondamento della nostra storia e del nostro stare insieme. I bambini e le famiglie di altre religioni dovranno adeguarsi, essendo venuti a vivere in una società di tradizione cristiana. I loro riti, le loro usanze e i loro simboli culturali-religiosi possono continuare a viverli, se proprio desiderano, a casa loro, nel privato. Negli spazi pubblici decidiamo invece di celebrare le “radici cristiane della Svizzera (e dell’Europa)”.
Rispetto a questa prima posizione si pone però il problema della laicità dello stato: non è la nostra scuola una scuola laica, quale ad esempio quella ticinese di ascendenza “liberal-radicale,” che non dovrebbe trasmettere simboli e valori religiosi? Per coerenza, se costruiamo il presepe non sarebbe a questo punto anche il caso di reintrodurre i crocifissi nelle aule scolastiche? Ma se io sono un laico convinto, agnostico per non dire ateo, non ho il diritto di rivendicare che ai miei figli, da parte della scuola pubblica, non venga impartita alcuna educazione religiosa contro la mia volontà, ma venga piuttosto rispettata e promossa la libertà di culto e di pensiero?
Posizione 2: “Essendo lo stato laico, non costruiamo alcun presepe”.
Per questa seconda posizione, la scuola e lo stato devono rimanere laici e non trasmettere valori né simboli religiosi. La libertà di culto è garantita nel privato, dove ognuno può credere in ciò che gli pare e piace, mentre all’interno degli spazi pubblici deve valere innanzitutto il principio della neutralità dello stato di fronte alle questioni religiose. Non costruiremo quindi presepi né appenderemo crocifissi, e per parità di trattamento non daremo ovviamente neppure spazio ad altre espressioni culturali-religiose.
Per questa seconda posizione si pone però il problema se far comunque “entrare il Natale” nei nostri spazi pubblici, e se sì, come. Potremmo infatti decidere di “svuotare” completamente i nostri asili e le nostre scuole di qualsiasi simbolo che rimandi al Natale, dal Presepe passando per l’Albero, Babbo Natale incluso. Ma non sarebbe questo un eccessivo impoverimento, uno spogliare i nostri spazi pubblici dei simboli di un evento che in ogni caso è importante per la società? E non ha la scuola anche il compito, al suo interno, pur rimanendo neutrale e laica, di dare spazio, far incontrare e di mediare le varie espressioni culturali che provengono dalla società?
L’altra opzione per i sostenitori di questa seconda opzione potrebbe essere quella di dare spazio solo ai “simboli laici” del Natale, “svuotando” quindi l’evento “solo” dei suoi “simboli religiosi”. Non sarebbe infatti “Babbo Natale” un simbolo che può accomunare tutti, indipendentemente dal proprio “credo privato”? Ma la laicità e la neutralità dello stato e della scuola devono essere tali solo di fronte ai simboli religiosi? Non dovrebbe esserlo anche di fronte ad altre “ideologie” ed altre “religioni senza Dio”, quali il “Consumismo”? Nella cultura imperante dell’ “Homo Oeconomicus” siamo tutti uguali, cristiani, musulmani, ebrei, agnostici e atei. Siamo tutti consumatori di fronte al Simbolo contemporaneo per antonomasia che è la “Merce”, la cui celebrazione tocca anch’essa il suo apice nel “Rito del Consumo” che il Natale è diventato. Siamo veramente disposti come società a lasciar spazio solo a questa forma di “religiosità”, perlopiù dominante all’interno della nostra cultura? O nel “Natale” vi è dell’altro?
Posizione 3: “Costruiamo il presepe, e diamo spazio ad altri simboli culturali-religiosi”.
Rimane una terza posizione: quella di uno stato che si vuole sì “aconfessionale”, che però lascia spazio al suo interno, nei suoi luoghi pubblici, ai vari simboli culturali e religiosi presenti nella società. Lo stato può diventare così, proprio in quanto laico, neutrale e, non da ultimo, “democratico”, quel luogo di incontro, dialogo e confronto delle molteplici “forme di vita e di espressione” dei suoi cittadini.
Ci si può così confrontare con i molteplici simboli che il “Natale” rappresenta costruendo, volendo, anche un presepe. Questo non perché la scuola debba essere espressione delle “radici giudaico-cristiane” della nostra cultura, ma perché dà spazio, al suo interno, a ciò che può aver valore per una parte dei suoi membri. Il presepe potrebbe così diventare anche un’occasione di dialogo e di scambio con chi non ne condivide i simboli e i valori.
D’altra parte, in nome della parità di trattamento e della possibilità di espressione di tutti i “cittadini”, si potrà discutere e comprendere che non per tutti i cristiani il Natale cade il 25 dicembre. Ma non solo: si potrà anche dare spazio all’ascolto e alla narrazione di quegli “altri eventi” appartenenti alle altre tradizioni culturali e/o religiose presenti in classe, quali ad esempio il “Ramadan” o la “Pasqua ebraica”, a partire dal presupposto laico e liberale che per taluni Gesù non è il figlio di Dio, così come per altri Dio neppure esiste.
Lo spazio pubblico non sarà così “svuotato” e “spogliato” dei simboli e dei valori che vivono e agiscono all’interno della società, ma non sarà neppure il “luogo” dell’imposizione alle minoranze, e ai singoli cittadini tout court, di determinati simboli e valori reputati dominanti da parte di chi detiene il potere. Lo spazio pubblico potrà invece diventare un vero e proprio “spazio di mediazione interculturale”, occasione di incontro, scambio e confronto, ma anche di stimolo alla “riflessione critica”, in nome della “cittadinanza attiva” dei suoi membri.
P.S.: La terza posizione è ovviamente in contrasto con quanto avviene ad esempio nelle scuole pubbliche francesi, dove non vi è solo il divieto per le scuole di appendere crocifissi o costruire presepi, ma vi è pure l’obbligo per gli alunni di “levare dai propri corpi”, quando entrano in classe, qualsiasi “simbolo religioso” (una vera e propria estremizzazione della seconda posizione).
Ricordiamo inoltre pure il recente caso di un’allieva di St. Margrethen (SG), alla quale la scuola aveva imposto di levare l’hijab (il “velo islamico”) in classe. L’allieva, in seguito ad un ricorso presentato dalla sua famiglia al Tribunale amministrativo cantonale, in nome della libertà di credo e di coscienza può di nuovo indossare il suo hijab.
In uno stato laico e repubblicano, che non vuole confrontarsi con la differenza culturale e religiosa, gli spazi pubblici rischiano di venire “spogliati” della molteplicità dei simboli e dei valori che vivono all’interno della società, facendo così agire solo la “cultura dominante”, con i suoi simboli quali “Nike” e “Abercrombie” bene in vista, e i suoi relativi “valori”.
martedì 25 novembre 2014
La doppia presenza. Per una valorizzazione delle culture d'origine dei migranti.
(discorso tenuto in occasione della "Festa per la giustizia sociale e contro la xenofobia" del 29 marzo 2014 a Lugano)
La filosofa Hannah Arendt sosteneva che l’essere umano nasce e “viene al mondo” due volte. La prima nascita è quella del “venire partoriti” come esseri meramente naturali.
Potremmo chiamarlo “parto fisico”. La seconda nascita è invece quella del “venire accolti” come esseri viventi in un mondo linguistico-culturale. Questo mondo è formato dalle parole, dai gesti e dai significati con i quali nostra madre, o chi ne fa le veci, entra in relazione con noi, trasformandoci da esseri unicamente “biologici” e “istintivi” in esseri propriamente umani. Potremmo chiamarlo “parto culturale”. Questa “seconda nascita” è la nostra “prima entrata in società”.
I figli degli immigrati devono però affrontare una “terza nascita”: il “venire accolti” come stranieri in un ulteriore mondo linguistico-culturale, che non è quello dove sono stati accolti la prima volta dalla voce della loro madre e del loro padre. Potremmo chiamarlo “parto interculturale”. Avviene essenzialmente quando i bambini immigrati vengono inseriti per la prima volta nel nostro sistema educativo. Durante questa “seconda entrata in società” il bambino si rende conto che le parole, i gesti, i significati con i quali è diventato per la prima volta “umano” non sono le parole, i gesti, i significati della cultura dominante dove è destinato a vivere. Si accorge di essere diverso e che la sua lingua d’origine è subalterna e marginale.
Di fronte a questa “terza nascita” e “seconda entrata in società”, sia per la famiglia immigrata che per la società vi sono solo due opzioni, che si escludono a vicenda. Possiamo valorizzare sia la lingua e la cultura di provenienza del bambino che la lingua e la cultura della società di accoglienza. Oppure possiamo valorizzare unicamente lingua e cultura della società di accoglienza. È principalmente tramite questa seconda opzione che avviene oggi l’inserimento degli allievi alloglotti nelle nostre scuole, con tutti i rischi che ciò comporta, per l’allievo immigrato, per la sua famiglia ma anche per la nostra società nel suo complesso.
È infatti oramai dimostrato dalla letteratura scientifica di riferimento che, se vogliamo garantire uno sviluppo psicosociale adeguato della personalità ai bambini di seconda generazione, sarebbe auspicabile, per non dire necessario, valorizzare anche la lingua e la cultura del paese d’origine, e non solo quelle del paese d’accoglienza. Solo così il bambino potrà sviluppare un’identità interculturale complessa, e solo così potremo promuovere come società un’autentica integrazione che non sia una mera assimilazione alla cultura dominante.
Il bambino di seconda generazione è in prima istanza, sempre e comunque, uno straniero, essendo lui figlio di una lingua altra, di una provenienza culturale che struttura inevitabilmente la sua identità. Valorizzando questa provenienza, potrà rendersi conto della ricchezza e della complessità della cultura nella quale è venuto al mondo, che non è meno ricca né meno complessa della cultura della società di accoglienza, ma è solo differente. Solo così il fatto di provenire da una cultura subalterna non sarà vissuto come inadeguatezza e come vergogna, e solo così il suo essere diverso sarà vissuto come risorsa, e non unicamente come problema e come causa di marginalizzazione sociale. Anche perché quei bambini che faranno di tutto per nascondere la loro origine e diventare “più svizzeri degli svizzeri”, rischiano comunque di continuare a venire riconosciuti e trattati come stranieri.
Integrare non significa assimilare gli immigrati ai nostri usi e costumi. Significa valorizzare sia la nostra lingua e cultura sia le lingue e le culture dei loro paesi di provenienza, e costruire insieme una cultura comune più complessa, cogliendo nelle lingue e culture altre non un ostacolo all’integrazione, ma un’occasione di crescita e di ricchezza per tutti. Ed è solo così che i bambini di seconda generazione potranno trasformare la loro “doppia assenza”, il fatto di non sentirsi a casa né nel paese d’origine dei loro genitori né nel paese d’accoglienza, in una “doppia presenza”, in un poter essere sia svizzeri che portoghesi, serbi, turchi, … Non vi è altra scelta se si vuole promuovere uno sviluppo della nostra società che garantisca l’ordine, la pace e il benessere sociale di tutti i suoi membri, autoctoni compresi.
martedì 11 novembre 2014
Appunti morali VII.: "Burqa"
(da laRegione del 10 novembre 2014, Illustrazione di Sighanda)
Fino a che punto in una società che si vuole fondata su libertà e
uguaglianza dovremmo tollerare la decisione di una donna di coprirsi il volto con
il cosiddetto “burqa”?
Si tende perlopiù a parlare di “burqa”, anche se bisognerebbe
innanzitutto distinguere tra “hijab”, il velo che copre solo i capelli,
“niqab”, il velo che copre anche il viso ma non gli occhi, e “burqa”, che copre
invece pure gli occhi.
In ogni caso, il 22 settembre 2013 il 65% del popolo
ticinese accetta l’iniziativa che inserisce nella costituzione cantonale il “divieto
di dissimulare o nascondere
il proprio viso nelle vie pubbliche e nei luoghi aperti al pubblico o destinati
ad offrire un servizio pubblico”. La proposta di legge, per
non essere discriminatoria nei confronti di un determinato gruppo sociale minoritario,
vieta a tutti i cittadini, e quindi non solo alle “donne con il burqa”, di
coprirsi il volto in tutti i luoghi pubblici: non solo in scuole, ospedali,
banche, negozi, ma anche in piazze, strade, cinema, teatri e stadi. L’articolo
costituzionale, prima di poter entrare in vigore, è in attesa di ottenere il
beneplacito delle camere federali.
Ma si tratta veramente di un “problema reale”, o perlomeno prioritario,
per la società ticinese? Probabilmente no, visto che le donne che girano con il
viso coperto residenti in Ticino si contano sulle dita di una mano. Che bisognasse
creare un articolo costituzionale apposito per affrontare un problema che
concerne due o tre donne con il “niqab” è quantomeno opinabile (di donne con il
“burqa” invece non se ne sono mai viste). Immaginiamo però che i fautori del
divieto sosterebbero che si tratta di una legge preventiva, in vista di un
possibile arrivo in massa nei prossimi anni di “donne col viso coperto”. Purtroppo,
o per fortuna, questa previsione non ha alcun fondamento scientifico, nessuna
invasione è prevista.
La stragrande maggioranza delle donne che vediamo con il “niqab” sulle
nostre strade sono ricche turiste provenienti dall’area del Golfo, perlopiù saudite,
che trascorrono le loro vacanze tra la Via Nassa e i nostri alberghi cinque
stelle, convinte a venire in Ticino da una buona attività promozionale nei loro
paesi da parte del nostro ente turistico.
Il popolo ticinese ha quindi innanzitutto votato una legge che è in
contrasto con il suo interesse economico preponderante, l’utile dato dal denaro
che queste turiste del Golfo spendono in Ticino. Ma probabilmente il dibattito
su un problema (quasi) del tutto inesistente è segno di qualcos’altro, di un radicato
disagio nei confronti di una società multiculturale, oltre che di un forte
pregiudizio, diventato paranoia, nei confronti delle persone di fede musulmana.
Al di là delle riflessioni di carattere più psicologico e sociologico
sul perché il popolo ticinese debba “perdere tempo” per affrontare “l’invasione
delle donne col burqa”, proviamo però a confrontarci direttamente con le
argomentazioni dei sostenitori del divieto.
Prima argomentazione:
“coprirsi il volto non fa parte della nostra cultura”.
La questione essenziale da affrontare è come ci comportiamo, in quanto
società, di fronte ad una donna che decide liberamente, di sua spontanea
volontà, di indossare il “niqab” o il “burqa”. Se fosse costretta a indossarli,
infatti, non sarebbe necessaria alcuna legge “anti-burqa”, avremmo già
sufficienti mezzi legali per intervenire (sarebbe un atto di violenza e
sottomissione di un cittadino da parte di un altro cittadino, un mancato
rispetto della libertà dell’individuo e della sua autonomia, ecc.).
Incontrare una donna con il volto coperto ci può mettere a disagio, e
creare in noi un effetto di spaesamento e di disorientamento: non ci siamo
abituati, non fa parte dei nostri usi, costumi e abitudini. Ma che un’usanza
non sia parte della nostra cultura è una ragione sufficiente per vietarla? Per
i sostenitori della “legge anti-burqa” presumiamo di sì.
Ma vogliamo veramente vivere in una società nella quale la maggioranza
della popolazione e lo Stato hanno la facoltà di decidere su come bisogna vestirsi,
su come girare in strada, in cosa credere, sugli usi e costumi di tutti? Non è
questo un attentato alla libertà, all’uguaglianza (nella libertà), ai principi
liberali che stanno a fondamento della nostra cultura? Che male fa agli altri
cittadini una donna che di sua spontanea volontà decide di coprirsi il volto?
Sicuramente non ci limita nella nostra, di libertà. Posso non condividere la
sua scelta, volendo mi può anche dare fastidio, ma perché le devo imporre un
divieto pubblico assoluto?
Pensiamo all’attuale moda dei tatuaggi. Provengono da culture tribali del
tutto distanti dalla nostra. Saremmo veramente disposti ad accettare una legge
che vieti di mostrare qualsivoglia tatuaggio nei luoghi pubblici, perché non fanno
parte della nostra cultura, perché non condivido la scelta di chi si tatua,
anzi vedere sti tatuati mi dà pure fastidio, e a limitare di conseguenza la loro
libertà individuale? Perché il tatuaggio sì e il “niqab” no?
Seconda argomentazione: “scoprirsi
il volto nei luoghi pubblici è una questione di reciprocità che deve valere per
tutti”.
I fautori della legge sostengono che le persone nella nostra società devono
essere “viste in faccia”, e questo principio deve valere per tutti. Ora, si può
anche convenire che in determinati luoghi è necessario che tutti “mostrino il
volto” per ragioni di sicurezza, ad esempio in una banca o in un negozio. Ma l’iniziativa
che è stata accettata impone di “scoprire il volto” in tutti i luoghi pubblici.
Per banche e negozi bastava creare una disposizione legale specifica.
In nome della parità di trattamento e dell’uguaglianza nella libertà,
potrebbe quindi anche essere corretto chiedere alle “donne con il viso coperto”
di togliersi il copricapo in banca o al distributore di benzina, se anche io
devo togliermi il casco quando ci entro. Ma, per coerenza, se d’ora in poi
chiederemo a qualche donna di “togliere il burqa” sulle nostre piazze e sulle nostre
strade, allora anche io non potrò più girare in inverno, se fa freddo, con il
passamontagna, ma neanche con la cuffia e la sciarpa sulla faccia (coperture del
tutto simili al “niqab”). Siamo veramente disposti a limitare a tal punto la
nostra libertà?
I fautori della legge liberticida sostengono inoltre che la reciprocità
non dovrebbe valere solo all’interno della nostra di società, ma anche tra la
nostra di società e le società dalla quale provengono le “donne col viso
coperto”. Se io mi reco nei loro paesi non devo anche io adeguarmi ai loro usi
e costumi, e di conseguenza loro non devono adeguarsi ai nostri quando vengono
da noi? Ma alla base della nostra di società non vi è innanzitutto la libertà
di parola e espressione? Se io mi reco in Arabia Saudita non posso probabilmente
vestirmi come voglio né sicuramente dire tutto ciò che penso. Ma è questo un
motivo valido per limitare la libertà di espressione e di parola ad una saudita
quando viene qui da noi?
Terza argomentazione:
“coprirsi il volto nei luoghi pubblici crea un problema di sicurezza”.
Se si poteva forse anche convenire su una specifica disposizione legale che
imponesse a tutti di scoprirsi il volto in determinati luoghi quali banche e
negozi, molto più difficile invece è giustificare in nome della sicurezza il
divieto generalizzato di coprirsi il volto in tutti i luoghi pubblici. Per
coerenza e parità di trattamento dovremmo toglierci passamontagna, sciarpa e
cuffia quando fa freddo, ma anche gli sciatori e i giocatori di hockey pongono
problemi, per non parlare del carnevale.
Ora, è proprio rispetto all’argomentazione della sicurezza che i fautori
della legge rasentano il ridicolo: nessun criminale dotato di un minimo livello
di intelligenza, che sia un ladro o mettiamo pure un terrorista, indosserebbe
mai un “burqa” per commettere un furto o un attentato in Ticino. Il carnevale
inoltre crea potenzialmente molti più problemi di sicurezza che le “donne col
burqa”, e quindi non sarebbe il caso di vietare le maschere?
Quarta argomentazione: “il
burqa va vietato perché le donne che lo indossano sono sottomesse ai loro
mariti, vittime di violenza domestica”.
I sostenitori dell’iniziativa potrebbero infine ancora argomentare che con
la legge si intende prevenire e contrastare la violenza di cui queste donne
sono vittime, si vuole “liberarle” dalla loro sottomissione ad una cultura
maschilista e patriarcale.
Questo ragionamento dovrebbe valere anche per le donne che si coprono il
viso di loro spontanea volontà, “imponendo loro la libertà” con un divieto? E talune
delle nostre, di donne, che si rifanno più o meno completamente il volto e il
corpo tramite il bisturi della chirurgia estetica, non sono anche loro
sottomesse ai desideri di una società maschilista che le riconosce
essenzialmente e quasi esclusivamente come meri corpi? Difficile dire se sia
meglio o peggio coprirsi il volto o farselo rifare più volte da un chirurgo, è
innanzitutto una questione di gusto personale. Ma perché alle prime il gesto
deve essere vietato con la forza?
E per le donne che sono costrette a “coprirsi il volto” contro la loro
volontà? Al di là del fatto che non era
necessaria una “legge anti-burqa” per intervenire legalmente e penalmente in
questi casi, la legge è veramente efficace per aiutarle e per contrastare la
violenza a cui sono sottoposte? Una delle ragioni per la quale il marito le
impone di coprirsi il volto è anche per “non farsi vedere dagli altri uomini”.
Il risultato più probabile che ottengo con la legge sarà quindi l’opposto di
quello che (forse) auspicavo: tale donna dovrà molto probabilmente restare rinchiusa
in casa, senza più neppure la possibilità di poter uscire, con la relativa
intensificazione della violenza a cui è sottoposta.
Se l’articolo costituzionale verrà approvato dalle camere federali, i
giuristi avranno in ogni caso il loro bel da fare per regolamentare tutte le possibili
e molteplici eccezioni, dal carnevale alla “sciarpa e cuffia quando fa freddo”
fino ai nostri giocatori di hockey. Rimarrà con ogni probabilità un unico
divieto, intrinsecamente discriminatorio, che sarà imposto solo a due o tre
donne residenti, visto che di turiste saudite non ce ne saranno più.
In Svizzera ogni giorno si verificano in media circa 44 reati di
violenza domestica (dati 2012). Si stima inoltre che il 10-20% delle donne in
età adulta abbia subito almeno una volta nella vita violenza in famiglia.
Praticamente nessuna di queste donne indossa il “niqab”, ma troppi pochi sono i
voti che si guadagnano sollevando questo problema.
lunedì 6 ottobre 2014
Appunti morali VI.: Omicidio su richiesta
(da laRegione del 4 ottobre 2014, Illustrazione di Sighanda)
Ma uccidere qualcuno è sempre sbagliato? E se l’assassinio fosse a fin
di bene? Non si intende qui l’assassinio per il bene di una collettività, a
scapito di un singolo individuo che non avrebbe più diritto a vivere, ad
esempio l’esecuzione di uno spietato tiranno dittatore o di un indegno pedofilo
stupratore recidivo. Si intende invece l’omicidio di un singolo individuo per
il suo bene e su sua richiesta, individuo che ha deciso liberamente di voler
morire e per il quale l’esistenza non ha più senso di continuare a durare.
Un essere umano, molto probabilmente sofferente, potrebbe chiedere il
mio aiuto per farla finita una volta per tutte. E quindi perché non assecondare
la sua decisione, sostenerlo nella sua scelta e assisterlo per garantirgli una
morte dignitosa? Sempre meglio che lasciarlo da solo in cima ad un autosilo a
dover decidere se buttarsi oppure no. Poi è chiaro, per me e per la mia
coscienza non sarà sicuramente facile ucciderlo. Vi è poi una differenza
sostanziale se sono io a dover fare il gesto che procura la morte o se questi
lo fa da sé.
È per questo che in Svizzera abbiamo optato per una soluzione più
consona e efficace: il suicidio assistito su richiesta. Soltanto chi per
“motivi egoistici” aiuta una persona a suicidarsi può essere punito penalmente.
Non posso quindi assolutamente farlo per un mio utile personale: non è il caso
di aiutare mia zia a suicidarsi per ottenerne l’eredità, ma neppure una persona
qualsiasi se questa mi paga bene per assisterla, così come non è il caso di sostenere
il suicidio di qualcuno che non mi sta particolarmente simpatico.
Sono invece libero di aiutare qualsivoglia persona a togliersi la vita
se lo faccio non per il mio di utile, ma per il suo. Ovviamente la persona deve
essere in grado di intendere e volere, capace di scegliere in autonomia se
togliersi la vita oppure no, libera di prendersi le sue di responsabilità.
Secondo la classica morale liberale, spetta a lei decidere se la sua esistenza
ha ancora senso, se la sua vita è ancora una “vita buona” e “di qualità”, degna
di essere vissuta, oppure no. Non posso mica imporre a qualcuno di continuare a
vivere se non lo vuole.
Ecco perché qui da noi avremmo la possibilità, di diritto, di
assecondare la scelta di un ragazzo ventenne per il quale la vita è tutta uno
schifo, di sostenere la decisione di una donna di mezza età che ha subito un
destino avverso, e di assistere una persona anziana per la quale l’esistenza ha
perso di qualità. L’importante è che non sia io a dare la spinta dall’autosilo,
a imboccare la pillola o a iniettare il veleno mortale. La scelta è sua, non
mia, io posso solo essere di sostegno.
Perché l’omicidio su richiesta è moralmente sbagliato? Il “cannibalismo
consensuale”.
Nei dibattiti etici viene spesso citato il seguente caso esemplare[1]:
nel 2001, nel paesino di Rothenburg, in Germania, un ingegnere informatico di
43 anni, Bernd-Jürgen Brandes, rispose all’annuncio su internet pubblicato dal
signor Arwin Meiwes, un tecnico di computer di 42 anni. Meiwes cercava una
persona disposta a farsi uccidere e in seguito farsi mangiare. All’annuncio
risposero circa duecento persone, ma pare che alla fine solo Brandes fu
mangiato. Meiwes lo uccise, ne sezionò il cadavere e infine mangiò circa venti
chili di carne della sua vittima consenziente, cucinati, pare, con olio d’oliva
e aglio.
Che cosa c’è di male in questi fatti realmente accaduti? Entrambi erano
adulti consenzienti, con un lavoro e una vita normali, giuridicamente giudicati
in grado di intendere e di volere. Entrambi sono liberi di disporre della
propria vita come gli pare e piace, fino a quando non fanno male a qualcuno, ed
è stato il caso? Entrambi hanno il diritto di perseguire il proprio utile e
decidere cosa per loro è una vita buona. Vi è stata addirittura una
massimizzazione dell’utile di due persone: grazie all’incontro della vittima
con il suo cannibale entrambi hanno dato un senso alla loro esistenza, e scelto
autonomamente la loro strada verso il benessere, il piacere, forse la felicità.
Di male, si potrebbe ribattere, c’è innanzitutto la questione del
“cannibalismo”. Le persone, nella nostra cultura, per la nostra tradizione,
nelle nostre abitudini acquisite da millenni non si mangiano. Vi è, almeno per
il momento, un limite morale che non si può infrangere. Ma al di là del
cannibalismo, c’è il problema dell’omicidio su richiesta. Mettiamo che Meiwes,
l’assassino, volesse solo aiutare Brandes a porre termine alla sua esistenza,
perché giudicata non più degna di essere vissuta, senza senso e segnata da una
sofferenza per lui inaccettabile. Perché avrebbe dovuto essere sbagliato
ucciderlo?
Qualcuno sosterrà che la vita umana è un valore in sé, che bisogna
proteggere, custodire e difendere, anche al di là e al di qua della nostra
libertà individuale; la nostra vita e il nostro corpo sarebbero un dono e non
del tutto una nostra proprietà, ma bisogna crederci. Qualcun altro dirà che
dobbiamo promuovere una cultura della vita e lottare contro la morte. Non
possiamo mica tollerare l’omicidio su richiesta, e neppure assecondare un
suicida: di fronte a qualcuno che vuole buttarsi dall’autosilo, mica diciamo “è
una tua libera scelta, la vita è tua, fallo!”. Faremmo di tutto per fermarlo
(si spera), magari pure bloccandolo contro la sua volontà. Non siamo
moralmente, umanamente, socialmente responsabili della vita e della morte di
chi vuole togliersi di mezzo?
Ma il suicidio assistito è moralmente lecito? La morte dei “sofferenti
inutili”.
Brandes, invece di farsi uccidere in Germania, avrebbe potuto intraprendere
un viaggio in Svizzera, dove qualcuno poteva legalmente aiutarlo ad uccidersi. Anziani
(e meno anziani) sofferenti, con malattie giudicate inguaribili, per i quali la
vita non ha più senso, vengono regolarmente sostenuti nella loro decisione di
togliersi la vita. Ma non solo: sempre di più anche persone senza una “malattia
del corpo”, ma comunque sofferenti, vengono e verranno assistite nel loro
percorso verso la libera scelta di morire, ponendo così termine ad esistenze
giudicate senza senso, di scarsa qualità, superflue. Basta che chi assista non
lo faccia per motivi egoistici.
La morale elvetica, iperliberale e iperutilitarista, ha optato per la
seguente soluzione di “compromesso”: nelle nostre strutture pubbliche
(ospedali, istituti di cura, ecc.) si lotta per la vita. Non vogliamo mica
prenderci la responsabilità di decidere insieme, come società (come pazienti, politici,
medici, parenti, personale di cura, amici, psicologici, ecc.), se per una
persona ha ancora senso vivere oppure no, e se la sofferenza è oramai diventata
insostenibile e irrecuperabile. L’eutanasia attiva diretta, tramite un gesto
quale un’iniezione che procura la morte, è infatti reato penale. Noi
promuoviamo la vita.
La morte in quanto tabù, in società contemporanee fondate sul mito di
Peter Pan e su una volontà di potenza che ci desidera eterni, viene invece relegata
nel privato. In questo processo di privatizzazione della morte, singoli e
associazioni private accorrono regolarmente per assecondare, sostenere e assistere
atti di suicidio, in nome della libertà del tutto individuale di decidere per
se stessi quando morire, e di poter decidere in solitudine a casa propria se la
propria vita abbia ancora senso, sia ancora “utile” e di “qualità”.
In Svizzera nel 2011 sono state aiutate 431 persone ad uccidersi. Di
queste, sicuramente molte erano affette da malattie inguaribili, e il suicidio
è stato probabilmente un sollievo per non dover patire le pene dell’inferno per
il poco tempo rimasto a disposizione. Diverse altre persone, invece, sono state
aiutate perché la loro malattia era “solo” esistenziale e sociale, e quindi
forse guaribile. Magari erano persone sole, non più inserite socialmente,
abbandonate a loro stesse, inutili per la società e quindi per se stesse,
diventate solo un costo e non più un benefiche per nessuno.
La questione non è (più) quella della liceità del suicidio in sé. Uno
può anche uccidersi, può essere anche un suo diritto. La questione è invece
come decidiamo, come società, di rispondere alla sua richiesta di “suicidio
sociale”. In Svizzera abbiamo deciso che pubblicamente, sotto la luce del sole,
la morte mica la promuoviamo. La lasciamo invece agire nel privato, al di fuori
della nostra coscienza pubblica e della nostra comune responsabilità. Un’efficace
strategia sociale, consapevole o inconsapevole che sia, per liberarci dei
sofferenti inutili.
[1] Si veda in particolare M. Sandel, Giustizia, Feltrinelli, Milano 2012, p.
86.
Suicidio assistito e eutanasia in Svizzera
Suicidio assistito e eutanasia in Svizzera
In Svizzera non si è mai voluto
creare una legge che regolamenti l’eutanasia e il suicidio assistito. Valgono
però le seguenti disposizioni:
- Eutanasia
attiva diretta: omicidio mirato a ridurre le sofferenze di un’altra
persona. Il medico o un terzo somministra intenzionalmente al paziente
un’iniezione che conduce direttamente alla morte.
Questa forma di eutanasia,
legalizzata ad esempio in Belgio e Olanda, è attualmente passibile di pena ai
sensi dell’articolo 111 (omicidio intenzionale), articolo 114 (omicidio su
richiesta) o articolo 113 (omicidio passionale) del Codice Penale.
- Assistenza al suicidio: soltanto chi
"per motivi egoistici" aiuta una persona al suicidio (ad es.
procurandogli una sostanza letale), è punito secondo l’articolo 115 del Codice
Penale con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria.
Nel
caso dell’aiuto al suicidio si tratta di procurare la sostanza letale al
paziente che auspica suicidarsi. Quest’ultimo poi la ingerisce senza l’aiuto di
terzi.
Organizzazioni come EXIT prestano assistenza al suicidio nell’ambito di
questa legge. Esse non sono punibili fintanto che non è possibile rimproverare
loro motivi egoistici.
A fine maggio l’assemblea di EXIT ha deciso di
assistere nel suicidio anche persone anziane senza “malattie mortali”.
mercoledì 6 agosto 2014
Appunti morali V.: Polanski
(da "La Regione" del 7 agosto 2014)
È giusto non riconoscere, valorizzare e
premiare le qualità artistiche di Roman Polanski, uno dei più grandi registi
viventi, per il fatto che nel 1977 ha avuto un rapporto sessuale con una
ragazza di 13 anni e 11 mesi?
Da più parti si continua a valutare negativamente, da un punto di vista morale, la partecipazione del regista al Film Festival di Locarno. Polanski è un criminale, Polanski fa di tutto per non essere estradato negli Stati Uniti, dove ancora oggi lo attende un processo per l’orrendo crimine che ha commesso, Polanski è ciò che oggi la nostra “morale sociale” reputa il “male assoluto”: un pedofilo, il mostro contemporaneo.
Potrà non piacere ai numerosi moralisti e ai moralizzatori nostrani, ma di fronte ad un’analisi più attenta e accorta le questioni etiche sono purtroppo, o per fortuna, molto più complesse di quello che appaiono, di quello che ci dice la nostra pancia o di quel che mormora la pancia del popolo. Ma assecondare questi mormorii, in particolare in questo cantone di provincia che ha fatto negli ultimi anni degli “umori della gente” la sua ragion d’essere politica, culturale e morale, è sicuramente la strada più facile, per rassicurare se stessi, gli altri e, perché no, per ottenere qualche tornaconto politico o qualsivoglia forma di riconoscimento sociale.
Polanski ha sicuramente commesso degli atti ignobili e meschini, quali il rapporto sessuale con una minorenne e la fuga di fronte alla giustizia, che hanno macchiato e peseranno per sempre sulla sua esistenza. Ma sono questi atti delle ragioni sufficienti per non invitare uno dei più grandi registi viventi al Festival del film di Locarno? D’altra parte, può la grandezza dell’artista, universalmente apprezzata e acclamata, mettere in secondo piano i suoi tragici errori?
Esiste il diritto a rifarsi una vita?
Cos’è che urta di più le nostre coscienze: il fatto che abbia commesso il reato o che sia fuggito dalla giustizia? Occorre qui ricordare come Polanski abbia patteggiato con la sua vittima, Samantha Geimer, una modella che il regista conobbe in quanto fotografo per Vogue. Si dichiarò colpevole di rapporto sessuale con persona minorenne e scontò in carcere la pena inflittagli. Venne rilasciato anticipatamente con una valutazione che consigliava una pena detentiva con la condizionale. Quando scoprì che il giudice non avrebbe dato seguito a questa valutazione fuggì in Francia.
Mettiamo per un attimo che l’intera procedura giudiziaria sia terminata e che anche negli Stati Uniti il suo caso legale sia oramai chiuso. Qualcuno reputerebbe ancora sbagliata l’idea di invitarlo al festival a parlare di cinema? Ciò non significherebbe mettere in dubbio il diritto, per una persona che ha commesso un atto criminale e ha scontato la sua pena, di “rifarsi una vita” e di non portare per sempre lo stigma sociale del gesto criminale che ha commesso?
Questo non vale unicamente per Polanski perché è un grande artista, ma per tutte le persone che una volta nella loro vita hanno commesso un reato. Non hanno tutte queste persone la possibilità di tornare ad una “vita normale” e di essere riconosciute dalla società per quel che fanno di buono, al di là dei crimini per i quali hanno scontato una “giusta pena” (sempre che ovviamente non siano recidivi)? Posso essere un “bravo padre”, un “bravo impiegato”, un “bravo sportivo”, un “bravo regista”, anche se una volta nella vita ho ucciso, rubato, stuprato, evaso il fisco, fatto sesso con una minorenne?
Coloro che non credono nel diritto alla seconda possibilità mettono in dubbio i principi del nostro ordinamento giuridico, e attaccano così i valori che stanno a fondamento della nostra morale sociale. È proprio di fronte al caso-limite della “pedofilia” che si tende sempre più a invocare l’internamento a vita, la castrazione, persino la pena di morte, in ogni caso la messa al bando definitiva dalla società. Ma ciò che realmente la “pedofilia” è e rappresenta necessiterebbe di un’analisi molto più approfondita che non delle mere reazioni emotive scritte su desideri di vendetta. E questo innanzitutto per prevenirlo, il male, e soprattutto per combatterla efficacemente, la “pedofilia”.
La complessità morale di un caso giudiziario
Mettiamo di non voler dare spazio alla caccia alle streghe contemporanea, e di non voler vivere in una società fondata su metodi giustizialisti premoderni, quando si marchiavano a vita con il fuoco i criminali. Ma decidiamo comunque di non voler rinunciare a giudicare gli atti di pedofilia in tutta la loro gravità e malvagità. In questo caso il problema morale essenziale dell’affaire Polanski diventa il fatto che sia fuggito di fronte alla giustizia americana.
Si apre qui la complessa questione del rapporto tra morale e diritto e della valutazione del caso giudiziario specifico. Per il diritto svizzero, Polanski è un uomo libero (come infatti rivendicato dai rappresentanti del Festival, anche se ci pare un argomento non del tutto esaustivo per giustificare il loro invito al regista). Inoltre non per forza se una persona è ricercata in un altro stato significa che noi, cittadini del nostro di stato, ne dobbiamo condividere le leggi. Infine, sempre a difesa di Polanski e del Festival, si potrebbe ricordare che la mancata estradizione del regista negli USA è stata giustificata da parte della Svizzera non unicamente per una questione di “forma”: la domanda di estradizione non è stata accolta perché secondo gli atti Polanski avrebbe già scontato l’intera pena inflittagli, e gli Stati Uniti non avrebbero presentato alle autorità federali la documentazione necessaria per dimostrare il contrario.
Ma si può veramente ridurre la valutazione morale ai formalismi di giudici e avvocati? In ogni caso le opinioni morali, anche solo attorno al caso giudiziario specifico, non possono che essere molteplici e spesso in contrasto tra di loro. Contro il regista e il festival citiamo, senza per questo voler essere esaustivi: le leggi di un paese vanno comunque sempre rispettate, non si può mica fuggire semplicemente perché le giudichiamo ingiuste, e qui parliamo pure di sesso con minori! Inoltre, il fatto non sia stato estradato non è perché ha potuto pagarsi i migliori avvocati? Infine, il fatto che venga riconosciuto e apprezzato come un grande regista non gli concede un trattamento di favore rispetto ad altri “poveri cristi” sottoposti a casi analoghi, per i quali nessuno accorre in difesa?
A favore di Polanski e del Festival: il regista ha patteggiato con la vittima Samantha Geimer, ha scontato la pena patteggiata, ha chiesto scusa alla vittima e Samantha Geimer l’ha pubblicamente perdonato. Lei ha inoltre richiesto più volte che non si parli più pubblicamente del caso (richiesta anche in Ticino per l’ennesima volta rimasta ascoltata…). Ancora a favore: c’è chi sostiene sia avvenuto un vero e proprio accanimento giudiziario nei confronti di Polanski, da parte di giudici e media conservatori nei confronti di una persona reputata fin troppo “liberal” e decadente nei suoi costumi e nel suo stile di vita, per una morale puritana che voleva tirare la coperta della giustizia dalla sua parte.
Opera e persona
Ma alla fine non sarebbe sufficiente l’alta qualità dell’opera del regista, oltre al fatto che in Svizzera è un uomo libero, per giustificare il suo invito a Locarno? Il “bene” che Polanski ha fatto alla società, con la poesia che ci ha saputo mostrare, le emozioni che ci ha fatto vivere, l’umanità delle storie di vita che ci ha permesso di cogliere, non mettono in secondo piano, da un punto di vista morale, il “male” che ha invece causato?
Non che il bene giustifichi il male. Nella valutazione etica di un essere umano, non bisogna sicuramente mai dimenticare i suoi vizi e i suoi errori, gravi o futili che siano. Ma non bisognerebbe anche riconoscergli le sue virtù e le sue beneficenze? Il male che Polanski ha commesso è in sé ingiustificabile, ma non possiamo negare che da qualche parte, quando apprezziamo un suo film o lo invitiamo ad un festival, pensiamo che questo male sia in parte compensato dal bene che ci ha offerto.
Non si tratta di distinguere l’artista
dall’opera, perché artista e opera, di fronte ad un’analisi etica e non
unicamente estetica, non sono mai del tutto distinguibili. Anche per questo,
sia detto per inciso, le prese di posizione che accettano che al Festival
vengano mostrati i suoi film, ma non che Polanski venga a Locarno, sono contradditorie
o perlomeno superficiali, dettate dall’emozione e da un’analisi insufficiente
della questione.
Ciò che dona riconoscimento e a valore alla sua persona sono i suoi film. E quindi, o crediamo che gli errori che ha commesso sono tali da infangare anche il suo esprimersi in quanto regista e decidiamo di boicottare i suoi film o, peggio, di censurarli. Oppure crediamo sia giusto ascoltare e premiare una persona per le sue virtù, così come reputiamo doveroso punirla per i suoi vizi. Altrimenti, le nostre crociate morali non saranno che una caccia alle streghe, o prese di posizioni morali fondate su una geometria variabile in vista di un proprio tornaconto personale.
Se decideremo comunque di applaudire Polanski per i suoi meriti di artista, crediamo che questi applausi non saranno mai sufficienti a cancellare quel tragico evento di 37 anni fa. La creazione di una somma opera d’arte non giustificherà mai un atto sessuale con una minorenne. D’altra parte, è questa violenza sessuale una ragione sufficiente per non cogliere, valorizzare e premiare la grandezza dell’opera di una persona?
lunedì 2 giugno 2014
Cittadinanza e nuova ragione del mondo
(estratti da “Rivista per le Medical Humanities”, gennaio-aprile 2014, http://www.rivista-rmh.ch/rivista.php )
Prologo: trasformazioni della cittadinanza
L’ipotesi è che la cittadinanza, intesa come possibilità di partecipazione e integrazione delle persone nella vita sociale, culturale e politica di una società in una determinata epoca storica, abbia subito negli ultimi decenni delle profonde trasformazioni[1].
La vittoria della “nuova ragione del mondo”[2], quella della globalizzazione tecno-capitalista, dell’egemonia del pensiero neoliberale oggi dominante, ha modificato gli assetti economici, culturali e politici che costruiscono le modalità dello “stare insieme” all’interno delle società contemporanee. Vengono così trasformati anche il senso e il significato della cittadinanza, di cosa una persona debba fare e chi debba essere per poter partecipare ed essere integrata nel “gioco sociale” preposto a costruire il nostro attuale “bene comune”. In parallelo, anche le svariate forme di “assenza di cittadinanza”, intesa come esclusione economica, sociale, politica e culturale, assumono una forma nuova, caratterizzata dall’impossibilità di avere accesso gioco, dal venire rifiutati e messi al bando secondo inedite modalità di marginalizzazione della devianza.
Uno degli assunti di base nell’analisi della “nuova ragione del mondo” tecno-capitalista è che la trasformazione in atto non è unicamente “economica”. Non assistiamo semplicemente al trionfo del libero mercato globale e del “laissez-faire” liberista contro lo stato moderno e la sua politica incapace di governarne il processo. La “nuova ragione del mondo”, per funzionare, ha messo in atto nuove tecniche di governo del mondo, della società e delle persone che lo abitano. La trasformazione è quindi anche “politica”, con nuove modalità di gestione e di amministrazione della “cosa pubblica” e del “bene comune”, ad esempio in vista della massimizzazione dell’”utile collettivo” pensato a partire dalla produzione individuale di ricchezza; “sociale”, con nuove modalità dello “stare insieme”, ad esempio la competizione e la concorrenza tra persone come modalità fondamentali della vita in comune e della nostra relazione con gli altri; “antropologica”, con nuove modalità di costruzione ed educazione delle soggettività, ad esempio l’essere liberi cittadini-consumatori, imprenditori di se stessi, condizione indispensabile per diventare qualcuno e poter essere felici.
La cittadinanza nell’epoca delle società della produzione
Prima dell’epoca odierna, della globalizzazione neoliberale tecno-capitalista, nella quale la cittadinanza è data dal “consumo” e dalla capacità (o incapacità) di essere imprenditori di se stessi, vi è stata l’epoca delle società della produzione, giunte al loro apogeo nel ventesimo secolo, caratterizzata dal sistema di produzione fordista e dal compromesso “socialdemocratico keynesiano”[3].
[…]
I cittadini-consumatori, liberi imprenditori di se stessi.
[…]
Contemporaneamente, la nuova “ragione del mondo” neoliberale si impone come nuovo modello economico, sociale, politico e morale di governo della società e dei suoi membri, modificando così anche il senso della cittadinanza e le modalità d’accesso al corpo sociale. Tramontate le ultime “ideologie totalitarie” del Novecento, la globalizzazione tecno-capitalista si propone come termine ultimo della Storia[4]. Una volta che tutto il mondo sarà connesso in un unico libero mercato, vi è la possibilità di concretizzare l’utopia di una società globale di liberi cittadini-consumatori, imprenditori e “manager” di se stessi[5].
Questa società permetterebbe ad ognuno la realizzazione dei propri unici e individuali desideri di felicità, trasformando ogni cosa (e ogni persona) in merce, in occasione di consumo e di godimento, nella continua ricerca del piacere nel qui e ora che la vita sarebbe diventata[6]. Ma anche per chi non volesse credere nell’utopia, la nuova “ragione del mondo” si impone, più “realisticamente”, come il miglior modo, l’unico, di gestione e di amministrazione delle società. Le alternative non possono che essere peggiori, reazionarie e totalitarie, in ogni caso lesive delle libertà dell’individuo e delle sue possibilità di “farsi una propria vita”.
Il libero mercato diventa così la condizione indispensabile per l’esercizio della propria libertà individuale, per l’espressione e la realizzazione dei propri desideri e di se stessi, di un’identità individuale che non si vuole più “imposta” come all’epoca delle società della produzione, ma che ognuno può “liberamente” costruirsi. Libera scelta del mestiere, della formazione, dell’identità sessuale, del partner, del ruolo famigliare, di come nascere e di come morire. Le scelte di vita, e con esse la propria identità da progettare e costruire, si possono e si debbono continuamente modificare quando non sono più occasioni di godimento, di “qualità di vita”, e quindi, pare, di felicità.
La cittadinanza pare così “emanciparsi” dalle imposizioni identitarie dell’epoca delle società della produzione, dal suo essere stata dovere di partecipazione all’ideale morale dello stato-nazione (dover essere bravi padri-lavoratori-cittadini dello stato), ideale per il quale si produceva, si lavorava e si era qualcuno. La “nuova cittadinanza” è data dalla partecipazione al nuovo ideale morale, il libero mercato, nel suo poter essere occasione di produzione di ricchezza, di utilità e felicità per tutti, o piuttosto per chi riesce a stare al passo coi tempi ed è in grado di giocare al nuovo gioco sociale[7]. La libertà è quella di poter scegliere cosa consumare e cosa diventare, la responsabilità quella di scegliere i prodotti e costruirci le identità che ci danno più piacere e felicità, il nuovo imperativo morale ci intima: “Consuma e godi!”. Non che la “produzione” scompaia dalla società, ma non è più il lavoro il fulcro che garantisce la partecipazione e l’integrazione sociale, ma il “potere d’acquisto” come possibilità di consumo, di godimento e di costruzione della propria vita. Nella finanziarizzazione dell’economia, ciò che ha valore è il capitale, non il lavoro[8]. “The Wolf of Wall Street”[9].
In questo nuovo processo di integrazione e di esclusione sociale, ogni “cittadino” deve diventare un manager, un imprenditore di se stesso all’interno delle molteplici possibilità di stili di vita e scelte identitarie che gli vengono offerte dal mercato, stili di vita che è costretto a scegliere, sempre che abbia abbastanza potere d’acquisto (=“potere di cittadinanza”)[10]. Il “bene comune” non è più lo stato e la sua democratica gestione della “cosa pubblica”, essendo il mercato, per il neoliberalismo, il nuovo “bene comune”. Al “centro del villaggio” non vi è più la Chiesa, come nelle società premoderne, ma neppure la Piazza del Municipio, vi è il Centro Commerciale. Si può non più credere in Dio, si può anche decidere di non più votare, ma non si può non consumare.
Non che i governi e gli stati scompaiano, ma cambiano le loro finalità: la loro ragion d’essere diventa quella di permettere, tramite una corretta regolamentazione politica e legale, al mercato di poter sviluppare la sua supposta virtù di produzione di benessere comune[11]. Così come non scompare la società[12], ma si modificano le modalità e le finalità dello stare insieme: gli altri diventando da un lato le persone con le quali entrare in relazione per poter godere di se stessi e potersi costruire la propria vita, dall’altro gli altri diventano i miei concorrenti, coloro con i quali entro in competizione per poter diventare qualcuno e, pare, poter essere sempre migliore[13]. La persona diventa così un cliente a cui posso offrire delle prestazioni, e capitale umano, relazionale e affettivo delle cui prestazioni io stesso posso usufruire. In questo “reality show” basato su competizione e concorrenza, solo i migliori dovrebbero vincere e il merito venire valorizzato. Si allunga però sempre di più anche la lista degli scartati, degli inadatti alla sopravvivenza che non sono stati abbastanza bravi a giocare.
La cittadinanza negata nelle società dei rifiuti
Chi non raggiunge gli scopi richiesti dalle regole sociali stabilite dalla nuova “ragione del mondo” rischia di venire riconosciuto (e di riconoscersi) come un perdente, uno scarto, un rifiuto della società[14]. Non sarebbe all’altezza della morale vigente e non è in grado di adeguarsi a un sistema che gli darebbe tutte le possibilità per diventare qualcuno. Oppure, non essendoci alternativa e non essendoci abbastanza spazio per tutti, chi non ce la fa non ha saputo giocare bene le sue carte. Alle persone sempre più ai margini della società, che rischiano di essere estromesse dal gioco sociale, non rimane che la lotta, la competizione per accaparrarsi i pochi beni di cui possono ancora usufruire (un lavoro, una casa, una prestazione sociale,…). La guerra tra poveri è un efficace e fondamentale modello di gestione delle popolazioni all’interno delle odierne società neoliberali.
[…]
Epilogo: l’amministrazione dei “senza-cittadinanza”
[…]
I problemi, le emergenze, le crisi da gestire non sono quelle del sistema neoliberale tecno-capitalista, strutturalmente incapace di concedere a ognuno la partecipazione al gioco sociale dei consumi, sistema che produce sempre più rifiuti materiali e sociali per rendere possibile il suo statu quo. I problemi da risolvere sono invece quelli di un sempre maggiore indebitamento dei singoli e degli stati, indebitamento che rischia di diminuire il potere d’acquisto=la possibilità di consumo=la possibilità di cittadinanza, tramite politiche d’austerità che non fanno che aumentare il numero degli scartati. I problemi ulteriori saranno allora quelli del controllo sociale e securitario (assistenza e polizia) per tenere sotto controllo i rifiuti[15].
Le emergenze da contrastare sono quelle del sempre maggiore afflusso di immigrati dalle discariche del mondo, sono quelle della piccola criminalità diffusa, dallo spaccio di quartiere al bullismo a scuola, perché la violenza non è quella del sistema che produce la devianza, ma sempre e solo del singolo che pone problemi... Assistiti, stranieri, invalidi,…, sono loro i colpevoli della mia incapacità di partecipare appieno alla nuovo forma di cittadinanza[16]. Loro, i “colpevoli individuali”, si possono socialmente e politicamente controllare, tenere a bada, reprimere; non invece i meccanismi e le responsabilità collettive che producono la devianza, anche se ne sono cosciente e me ne posso anche indignare[17].
[…]
[1] Vengono qui ripresi e declinati a partire dal concetto
di cittadinanza, alcuni temi sviluppati dall’autore in Carcere. Note sulle società del controllo, in
“Ground Zero/Luoghi”, n. 1, Cascio, Lugano, 2009, Latte. Note sulle società dei consumi, in “Ground
Zero/Cibo”, n. 2, Cascio, Lugano, 2010, Intestino. Note sulle società identitarie, in “Ground
Zero/Persone”, n. 3, Cascio, Lugano, 2011, Assistito. Note sulle società dei rifiuti, in “Ground
Zero/Rifiuti”, n. 4, Cascio, Lugano, 2012, Ground Zero. Note su utopia e distopia, in “Ground
Zero/Frontiere”, n.5, Cascio, Lugano, 2013.
[2]Il riferimento è a P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della
razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma, 2013. Gli autori,
riprendendo le riflessioni sulla “razionalità politica” del neoliberalismo
portate avanti da Michel Foucault, analizzano la nuova ragione del mondo della
globalizzazione tardocapitalista nei suoi aspetti economici, sociali e
politici. Nell’opera di Michel Foucault, si vedano in particolare Nascita della biopolitica. Corso al Collège
de France 1978-1979, Feltrinelli, Milano, 2005 e Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France
1977-1978, Feltrinelli, Milano, 2004.
[5] Sulle società del consumo, Z. Bauman, Consumo, dunque sono, Laterza,
Roma-Bari, 2010, Z. Bauman, Vita liquida,
Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 84-130, M. Franchi, Il senso del consumo, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
[6] Sul godimento, P. Dardot e C. Laval, op. cit., pp. 445-449 e 463-465, S.
Zizek, Il godimento come fattore politico,
Raffaello Cortina, Milano, 2001.
[8] Sulla finanziarizzazione del capitale, L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in
crisi, Einaudi, Torino, 2013.
[9] Il riferimento è all’ultimo film di Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street, 2013, nel quale
il godimento dato dal consumo e dall’accumulazione del capitale viene portato
all’eccesso.
[12] Il riferimento è a una celebra frase di Margaret
Thatcher, “la società non esiste,
esistono solo gli individui”.
[14] Sulla stigmatizzazione della devianza, E. Goffman, Stigma. L’identità negata, Ombre Corte,
Verona, 2003.
[16] Sulle nuovo forme di insicurezza, A. Appadurai, Sicuri da morire. La violenza nell’epoca
della globalizzazione, Meltemi, Roma, 2005.
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