Pagine

sabato 5 aprile 2014

Appunti morali III.: Tortura



(da "La Regione" del 5 aprile 2014)




Ma siamo proprio sicuri che la tortura sia sempre sbagliata? 
E se torturare un criminale terrorista ci permettesse di salvare la vita a migliaia di persone innocenti? 

Qualche attivista dei diritti umani sosterebbe che anche il terrorista ha una sua umanità che va protetta, e quindi guai a toccarlo. Contro ci sarà pure, forse, ancora qualche intellettuale, disposto a firmare qualsivoglia appello che sia in odore di engagement. Ma al di là dei buoni sentimenti e della fede in un mondo teorico ideale, la realtà è un’altra cosa: sul piatto della bilancia vi sono le vite di civili innocenti contro la supposta dignità di un individuo che ha fatto del terrore e del massacro incondizionato la sua ragione esistenziale e la sua religione di vita.

Proviamo a riflettere a partire dai casi seguenti, ispirati dalla cruda realtà: New York 10 settembre 2001, Madrid 10 marzo 2004, Londra 6 luglio 2005, i servizi segreti americani, spagnoli e britannici sospettano che nei prossimi giorni possano avvenire degli attentati in queste città. I loro rispettivi agenti arrestano ciascuno un supposto terrorista. Gli agenti presumono che gli arrestati conoscano il piano dell’attentato. I terroristi, ovviamente, non vogliono parlare, ma se parlassero si potrebbero salvare tante vite umane. Il giorno seguente nelle Torri Gemelle di New York moriranno 2752 persone, nei treni di Madrid 191, nella metropolitana di Londra 52, senza contare le migliaia di persone rimaste ferite.

Che fare? Perché non sarebbe giusto, per non dire doveroso di fronte a queste vittime innocenti, utilizzare qualsiasi mezzo per far confessare il terrorista, ricorrendo se necessario anche alla violenza? Non bisogna subito torturare, beninteso, si può sempre iniziare a dialogare e tentare di convincerlo. Se poi non dovesse funzionare si può passare alla pressione psicologica, che presto potrà trasformarsi in violenza psichica e poi, sempre come ultima ratio, il dolore fisico, da quello più soft fino a quello più hard. Ricordiamoci però che non abbiamo molto tempo a disposizione, gli altri terroristi si stanno preparando...

È secondo queste argomentazioni morali che l’amministrazione americana di allora, sotto la guida di George W. Bush, giustificava il ricorso ai tormenti corporali contro i nemici della società. Come sosteneva Robert Kagan, intellettuale e professore universitario vicino al clan neoconservatore, gli americani non potevano che essere realisti, pragmatici ed efficaci. Il loro idolo doveva essere Marte, dio della guerra, che permette quando necessario l’utilizzo della forza per la conservazione della civiltà. Le femminucce europee, invece, buoniste ed idealiste, adorano Venere, dea dell’amore, sempre disposte come sono a perdonare e a permettere al male di propagarsi. Toccava agli americani fare il lavoro sporco.

Perché un fine buono, salvare delle vite umane, non dovrebbe giustificare un mezzo quale la violenza fisica?
Innanzitutto, ma è proprio vero che la violenza fisica non sia mai un mezzo giusto in vista di un fine buono? I pacifisti assoluti possono anche urlare no e poi no, la violenza fisica non può mai essere un mezzo giustificabile. Concretamente, però, se un giorno incontrassimo un malintenzionato che vuole farci del male, mettiamo accoltellarci o violentarci, non sarebbe corretto rispondere a nostra volta con la violenza, per legittima difesa? Altro che porgere l’altra guancia. Altro esempio: se un giorno di notte, in qualche vicolo buio, dovessimo assistere alla scena di un criminale in procinto di violentare una donna, non sarebbe giusto intervenire, con le buone o anche con le cattive? La polizia ci impiegherebbe in ogni caso troppo ad intervenire… La violenza fisica, in questi casi, non è un mezzo accettabile in vista di un fine buono, salvare la nostra pelle o quella di qualcun altro?

Ma allora, se siamo disposti a giustificare moralmente la violenza per autodifesa o per difendere la vita di terzi, perché non possiamo giustificarla anche nel caso della tortura del terrorista? Aggiungiamo un ulteriore tassello al nostro caso pratico: oltre al terrorista che non vuole parlare, siamo riusciti ad arrestare anche sua moglie e sua figlia di 12 anni. Se il fine, salvare migliaia di vite umane, giustifica i mezzi, allora perché non infliggere dolore anche alla moglie e alla figlia? Le probabilità che il terrorista confessi aumenterebbero considerevolmente. Sì, lo sappiamo, sono anche loro creature innocenti, ma i calcoli morali appaiono evidenti: i benefici sono il salvataggio di migliaia di vite umane, mentre i costi unicamente il tormento corporale e il temporaneo patire di due persone.

Non sappiamo se fra i sostenitori della tortura qualcuno sarebbe disposto ad argomentare anche a favore della violenza sui bambini. Osiamo immaginare di no. A questo punto vi devono essere altre ragioni che ci spingono ad accettare i supplizi, al di là di un mero calcolo utilitarista del fine che giustificherebbe i mezzi. Cosa distingue il terrorista da sua moglie e da sua figlia? Il fatto la sofferenza se la sia cercata e se la sia meritata. Lui è un Criminale con la C maiuscola, un nemico esterno alla nostra società che, senza pietà né rimorso per le sue vittime civili, può insidiare e mettere a repentaglio la vita di persone a noi care. Di fronte a individui quali i pedofili, i criminali violenti giudicati irrecuperabili e i terroristi, non possiamo provare pietà. Alle loro barbarie dobbiamo rispondere con quella giusta dose di violenza necessaria per renderli innocui, affinché non si permettano di farlo mai più. Solo così potremo salvare vite umane molto più degne di essere vissute delle loro. Non che si voglia sopprimerli del tutto, beninteso. Si tratta solo di infliggere a individui che non hanno rispetto della dignità altrui, individui che non possono permettersi di rivendicare il loro diritto all’umanità, un dolore consono alla difesa dei nostri bravi concittadini.


N.B.: se nonostante tutto preferiste adorare la bellezza di Venere, piuttosto che il vigore guerriero di Marte, eccovi una serie di argomenti che potreste utilizzare.

1. Se vogliamo valutare anche solamente l’efficacia del metodo della tortura, secondo un calcolo realistico delle conseguenze e delle probabilità, dovrei in ogni caso accertarmi: che la persona arrestata sia veramente un terrorista; che, anche se fosse un terrorista, riesca a convincerlo a parlare; che, anche se riuscissi a convincerlo a parlare, mi dica la verità e non svii le mie indagini; e che, in generale, il fatto che si sappia che delle persone vengono torturate in prigioni quali Guantanamo, non abbia come conseguenza l’aumento della violenza e del terrorismo nel mondo invece della sua auspicata diminuzione.

2. Se decidessimo di giustificare moralmente la tortura, e quindi di legalizzarla, dove metteremmo poi il limite, in quali casi sarebbe permessa e chi deciderebbe quando utilizzarla? Perché un poliziotto non dovrebbe poter torturare uno spacciatore o altri criminali recidivi? Lo farebbe a fin di bene, magari così la smettono di mettere a repentaglio la vita dei nostri ragazzi. Siamo veramente sicuri di voler vivere in una società dove lasciamo libertà di decisione e di manovra ai governanti (o alla maggioranza del popolo) sull’applicazione dei supplizi?

3. Può non essere piacevole, ma bisognerebbe ammettere che anche i terroristi possono avere le loro ragioni, comprensibili anche se forse non giustificabili. Se sono un ragazzo dell’Afghanistan e dei droni USA uccidono la mia famiglia “innocente”, perché non dovrei reagire? Purtroppo non ho la forza bellica per farla pagare a politici e militari americani, ma anche i civili non mi paiono del tutto innocenti, a quanto mi risulta erano più che d’accordo che il loro paese sganciasse delle bombe sulla mia terra e uccidesse i miei cari come effetto collaterale. Le ragioni del potere appaiono sempre più giustificate quando vengono espresse da persone a noi amiche.



tortura s. f. [dal lat. tardo tortura, propr. «torcimento», der. di torquēre «torcere», part. pass. tortus]. – 


L’azione, il fatto di torcere le membra a un imputato o a un reo, per indurlo a confessare o per punizione. Per estens., t. legale o giudiziaria, e istituto giuridico della t., attuati dall’antichità fino all’Ottocento (oggi ripudiati, almeno formalmente, da tutti gli stati), e consistenti in varie forme di coercizione fisica applicate a un imputato, più di rado a un testimone o ad altro soggetto processuale, allo scopo di estorcere loro una confessione o altra dichiarazione utile all’accertamento di fatti non altrimenti accertati, dei quali si debba tener conto nel definire il giudizio (…)
(dal vocabolario online Treccani.it).



Nessun commento:

Posta un commento