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mercoledì 25 maggio 2022

Guerre, profughi e ipocrisie occidentali

(da laRegione del 18 maggio 2022) Leggi anche qui.

Una profuga siriana chiede come mai vi siano queste differenze nell’accoglienza dei profughi scappati dalla guerra in Siria da quelli che fuggono dall’Ucraina. Una persona originaria dell’Eritrea chiede perché delle guerre in Africa nessuno parla mai. Una rifugiata afgana si chiede se il sangue dei bambini afgani valga di meno di quello dei bambini ucraini. Si tratta interrogativi reali di persone che abitano in Ticino, raccolti nell’ambito dell’accoglienza dei profughi nel Cantone. 

La solidarietà, sia nei confronti delle tragedie delle guerre che dei suoi profughi, è a geometria variabile. Dei conflitti e delle tragedie extraeuropee ci importa e ci importava molto meno, e mentre l’Europa accoglie milioni di profughi ucraini molti rifugiati extraeuropei vengono respinti con forza e lasciati morire sui confini del continente. La legge e i diritti umani non sono uguali per tutti.

Come spiegare queste disparità di trattamento? Il sostegno occidentale alla guerra di difesa del popolo ucraino potrebbe essere giustificato dal fatto che il conflitto questa volta è in Europa e che è un attacco alle “nostre democrazie”. L’accoglienza dei profughi ucraini sarebbe inoltre un nostro dovere per via della vicinanza geografica, ma anche perché sono europei ed occidentali come noi. 

Tendiamo a provare più empatia nei confronti di coloro che sentiamo essere più simili e vicini a noi. Questa solidarietà non ha però un fondamento “naturale”, non vi sono differenze biologiche né di sangue all’interno della specie umana e l’Africa non è poi molto più lontana dell’Ucraina. Si basa invece su una costruzione sociale, politica e culturale che stabilisce i confini tra un “Noi” e un “Loro”, tra “noi europei e occidentali” e gli “altri”, costruzione che influenza le nostre percezioni, le nostre emozioni e i nostri giudizi morali. 

È più facile provare empatia per degli occidentali che in Europa combattono e fuggono per “la giusta causa” della libertà e della democrazia, che non nei confronti di tragedie belliche africane e orientali e dei loro profughi, questo anche qualora fuggissero da guerre di aggressione e dittature repressive e violente, magari pure volute e sostenute dall’Occidente qualora ci convenga. Non c’è mai stata molta disponibilità ad ospitare nelle nostre case i profughi non occidentali.

Chi vive e viene dalla “parte del Noi” ha così più possibilità di ottenere solidarietà, sostegno e diritti, mentre agli “altri”, a chi vive e proviene dalla “parte del Loro”, la solidarietà, il sostegno e i diritti più fondamentali rischiano invece di essere negati. 

Ma l’Occidente non dovrebbe essere la patria delle libertà individuali e collettive e dei diritti umani, valori che in quanto tali dovrebbero valere per ogni persona e per ogni popolo? Non è anche per questo, ci dicono, che siamo in guerra? 

Di fronte allo scarto tra ideale e realtà non può non esservi ipocrisia. La realtà è sempre altra da come vorremmo che fosse, da come ce la raccontano e da come ci piace raccontarla a noi stessi per sentirci a posto con le nostre (false) coscienze collettive e individuali. 

A questa ipocrisia si potrebbe però reagire prendendo coscienza dei limiti della nostra visione del mondo, tentando di superare e risolvere perlomeno parzialmente le nostre contraddizioni. Se siamo riusciti ad essere solidali nei confronti della tragedia ucraina e dei suoi profughi, perché non provare ad estendere progressivamente questa volontà di aiuto e sostegno anche alle tragedie e ai profughi non occidentali?

Il rischio però è che si vada in tutt’altra direzione, rinchiusi nella nostra rappresentazione e narrazione etnocentrica del conflitto ucraino che tende a nascondere e non affrontare quasi mai le nostre contraddizioni.

Non ci si chiede ad esempio spesso come ciò che sta avvenendo in Europa venga visto e percepito dai non occidentali, si tende a nascondere il fatto che una parte consistente del mondo rimane perlopiù neutrale di fronte al conflitto ucraino, mentre si stanno rinforzando e creando nuove alleanze geopolitiche, economiche e strategiche tra Russia, Cina e molti altri Paesi asiatici e africani.

Come chiedere alle persone non occidentali sostegno alla “nostra guerra” e ai “nostri profughi”, se il nostro sostegno alle “loro guerre” e ai “loro profughi” pare segnato perlopiù dall’indifferenza?

Un universalismo dei diritti umani che non prende coscienza dei suoi limiti e delle sue ipocrisie rischia di contribuire alla creazione di un mondo nel quale il fossato tra “Noi” e “Loro” diventerà ancora più profondo e insormontabile. 

Vivremo così in un’Europa rinchiusa ancora di più all’interno dei suoi muri geografici, culturali, politici e identitari, volta a difendersi da quegli “altri” che provengono da Oriente e da Sud vissuti e percepiti sempre di più come “diversi da noi”, per i quali le nostre belle parole sui diritti umani non sono che un modo per nascondere i nostri interessi e diritti particolari e il nostro razzismo. Il sangue di una persona europea, bianca, cristiana e occidentale varrà così ancora di più del sangue di un africano, orientale, arabo e musulmano.



venerdì 15 aprile 2022

Critiche al pacifismo e l'idealismo della "guerra giusta"

(da I Naufraghi del 14 marzo 2022) Leggi anche qui.

Troppo facile criticare i pacifisti perché sarebbero delle “anime belle”, degli “idealisti” che vivrebbero in un mondo illusorio di pace e amore, persone che non vogliono “sporcarsi le mani” perché non accettano il fatto che ci sarebbero delle “guerre giuste”, come quella di difesa e di resistenza dell’Ucraina, che bisogna avere il coraggio di sostenere.

A critiche di questo tipo si può innanzitutto controbattere che un conto è essere dei cittadini ucraini che vivono nel loro Paese e che sono costretti a fare una scelta drammatica tra imbracciare le armi o fuggire, un conto invece è farlo rimanendo seduti al caldo e continuando a vivere in sicurezza nei nostri Paesi occidentali.

Fino a prova contraria, chi sostiene a parole una “guerra giusta” non si sta sporcando di più le mani di un pacifista che a parole ripudia la guerra come forma di risoluzione dei conflitti. Si può inoltre solo sperare che chi attacca le posizioni pacifiste non si spinga fino al punto di negare agli uomini ucraini il diritto alla fuga e all’obiezione di coscienza, e non intenda sostenere moralmente la loro eventuale punizione per reato di diserzione.

Affermazioni poi come quelle di Roberto Scarcella apparse sulle pagine de “La Regione” quali “ripudiare la guerra altrui solo perché la si osserva da lontano è miserando, oltre che adolescenziale” (suo commento del 3 marzo) perché il pacifismo sarebbe un atteggiamento “romantico, da scuola elementare” (suo commento dell’11 marzo), oltre che denotare una certa mancanza di rispetto nei confronti di chi la pensa diversamente dal giornalista, sono pure un ulteriore segnale di quanto sia difficile costruire un confronto democratico costruttivo e adulto attorno alla guerra.

Si pensi anche, per fare un ulteriore esempio in questo contesto, agli attacchi pubblici dal vago sapore maccartista a cui sono stati sottoposti in Italia pensatrici e pensatori come Donatella Di Cesare e Alessandro Orsini solo perché hanno osato proporre un’interpretazione differente rispetto al pensiero dominante sul conflitto in Ucraina.

Quando si tratta di giustificare una guerra, oggi come in passato, riemerge spesso, in particolare a sinistra, un certo idealismo volto a celebrare, legittimare e sostenere ad oltranza le “giuste cause” di una guerra di difesa, resistenza e liberazione. Si pensi ai racconti favolistici e immaginari della guerra partigiana, della Bolivia di Che Guevara, della lotta dei Mujaheddin contro i Talebani e così via.

In queste posizioni, che a livello ideale si potrebbero anche condividere, ci si dimentica purtroppo spesso, o si preferisce non vedere, la nuda, cruda e complessa realtà geopolitica, storica e umana di un conflitto, nonché le sue conseguenze reali a corto, medio e lungo termine.

Siamo davvero così sicuri che chi continua a sostenere ad oltranza la “giusta guerra” dello stato ucraino sia meno idealista e più realista di un pacifista che chiede di interrompere immediatamente il conflitto per promuovere una trattativa di pace col nemico e tentare una mediazione?

Se si vuole veramente guardare in faccia alla realtà siamo all’interno di un conflitto tragico tra pace e giustizia. Il pacifista dovrebbe essere consapevole che, se vuole la pace e intende ridurre il più possibile le sofferenze, le vittime e le tragedie della guerra, dovrebbe essere disposto a sporcarsi le mani scendendo a patti col nemico.

Chi invece sostiene il principio della “guerra giusta” dovrebbe invece avere il coraggio di ammettere ed accettare il sacrificio che sta chiedendo ad una popolazione in nome del suo ideale di giustizia, in termini di sofferenze, vittime e tragedie umane; dovrebbe chiedersi se ne valga davvero la pena e se la battaglia possa in qualche modo essere vinta, costi quel che costi.

Ma se invece lottassimo per un’idea di pace che sia realisticamente la meno sbagliata possibile, dimenticando i nostri ideali massimalistici, sia di una pace senza compromessi, sia di una “guerra giusta”, che esistono perlopiù solo nelle nostre fantasie?

O se perlomeno smettessimo di delegittimare e denigrare chi osa sollevare critiche nei confronti della narrazione della “guerra giusta”, e iniziassimo a confrontarci democraticamente e con rispetto reciproco su quali potrebbero essere le possibili soluzioni pratiche e vie d’uscita reali per provare a fermare l’orrore, sempre che si voglia veramente prima o poi provare a fare la pace?



Il conflitto ucraino tra pacifismo e guerra giusta

(da laRegione dell'8 marzo 2022)

Occorre domandarsi se la ‘giusta causa’ per combattere una guerra non conduca a conseguenze peggiori del male combattuto

Quasi tutti desidereremmo la pace e quasi nessuno vorrebbe mai che ci fosse una guerra. 

Esiste però un conflitto tragico tra pace e giustizia: la pace non per forza è sempre giusta, mentre talvolta la guerra, in certe situazioni e in determinati contesti, potrebbe apparirci come giusta o perlomeno giustificabile.

Anche Putin, dal suo punto di vista, potrebbe desiderare e volere la pace, la sua "pace imperiale". L’attuale governo ucraino, eletto democraticamente, avrebbe potuto cedere il potere a un nuovo governo dittatoriale imposto e voluto dalla Russia senza opporre alcuna forma di resistenza. Il cambio di regime sarebbe così potuto avvenire, idealmente, senza spargimento di sangue, in nome di una certa visione della pace, di una "pace a tutti i costi".

D’altra parte, la risposta armata da parte della nazione ucraina non è forse moralmente e giuridicamente legittima in quanto guerra di difesa della sua sovranità territoriale e di resistenza nei confronti dell’invasore?

Inoltre, il sostegno morale, politico, economico e militare da parte dell’Occidente all’Ucraina non intende forse essere anche un tentativo di bloccare sul nascere qualsiasi volontà d’espansione imperiale da parte di una potenza dittatoriale e nazionalista che nega i principi del diritto internazionale? La pace non va, in certi momenti, difesa con le armi facendo e sostenendo una guerra?

Per provare a comprendere la complessa relazione, da un punto di vista etico e politico, tra pace e giustizia, tra pacifismo e guerra giusta, può essere utile ricorrere al modello interpretativo del filosofo della morale e della politica Michael Walzer. 

Secondo l’autore americano, l’analisi della giustificabilità o meno di una guerra può essere suddivisa in tre momenti: lo "jus ad bellum", le cause per andare in guerra; lo "jus in bello", i metodi e i mezzi con i quali la guerra viene combattuta; lo "jus post bellum", l’exit strategy, ossia le condizioni di pace e giustizia al termine della guerra.

Per quanto riguarda lo "jus ad bellum", se non si crede alla "pace imperiale" desiderata da Putin, allora la violazione della sovranità territoriale ucraina e la rispettiva guerra d’aggressione e d’invasione russa non possono avere alcun tipo di giustificazione e vanno condannate senza se e senza ma. Inoltre, se non si crede alla "pace a tutti i costi", ma a valori quali la libertà, la democrazia e l’autodeterminazione dei popoli, allora il diritto del popolo ucraino alla legittima difesa e alla guerra di resistenza ci può apparire legittimo e giustificabile.

Non vi sono però solo le "giuste cause" per combattere una guerra e per sostenere, da un punto di vista morale, politico, economico e militare una delle due parti in conflitto. Ciò di cui spesso ci si dimentica quando si giustifica una ""guerra giusta", o che si preferisce non vedere, sono le conseguenze reali della guerra, come il conflitto verrà combattuto, qual è il suo possibile scopo finale e come si intende porvi termine e fare la pace.

Per riprendere il pensiero di Max Weber, non esiste solo l’etica della convinzione e dei principi, ma anche l’etica della responsabilità nei confronti delle conseguenze dell’applicazione dei propri principi ideali e delle proprie convinzioni nella realtà. 

Chi sostiene il pacifismo dovrebbe così prendersi la responsabilità di scendere a patti, o perlomeno di sedersi al tavolo della trattativa, con l’aggressore, cercando di porre termine al conflitto il prima possibile, e questo non perché si giustifica l’intervento dell’invasore, ma per ridurre il più possibile le sofferenze, le vittime e le tragedie reali che la guerra porta con sé.

D’altra parte, chi continua a sostenere e giustificare la guerra di difesa e di resistenza dell’Ucraina dovrebbe prendersi anche lui le sue responsabilità. In nome dei principi della libertà, della democrazia e dell’autodeterminazione dei popoli quante sofferenze, vittime e tragedie reali è disposto ad accettare?

Idealmente si può continuare a sostenere che sia Putin la causa unica delle tragedie della guerra, ma realisticamente come ci poniamo di fronte a una dittatura che per raggiungere i suoi scopi pare ben disposta a mietere vittime civili e a commettere crimini di guerra infischiandosene del diritto internazionale umanitario? Crediamo che a un certo punto possa essere giustificato un "intervento umanitario" da parte degli eserciti occidentali per provare a bloccare i massacri? Con quali conseguenze? O sceglieremo di stare a guardare dopo avere sostenuto a oltranza la causa ideale di una "guerra giusta"?

Bisognerebbe infine ancora domandarsi quali siano i possibili scopi finali della guerra e come si intenda prima o poi fare la pace. Se lo scopo finale volesse essere la sconfitta di Putin sul campo di battaglia, allora bisognerebbe chiedersi se ciò possa realisticamente avvenire lasciando combattere solo gli ucraini. Non si rischia in questo caso di creare un circolo infernale di violenza senza fine? O di arrivare prima o poi alla resa incondizionata dell’Ucraina?

O si è forse disposti, per difendere i nostri valori di libertà e democrazia, a estendere il conflitto al di fuori dell’Ucraina dando avvio, in nome della nostra etica dei principi e di una lotta del "Bene" contro il "Male", a una possibile Terza guerra mondiale contro una potenza nucleare, in mano a un dittatore che non sappiamo fin dove è disposto a spingersi? Quanto male e distruzione siamo disposti ad accettare in nome della guerra per il "nostro Bene"? Il fine, sempre che sia raggiungibile, giustifica veramente i mezzi?

Un pacifismo critico e realista, che non ha nulla a che fare con la rappresentazione dei pacifisti come "anime belle" che non avrebbero voglia di "sporcarsi le mani", si pone continuamente la domanda se la "giusta causa" per combattere una guerra non conduca a conseguenze reali che rischiano di essere ben peggiori del male contro il quale si è voluto scendere in battaglia.

Questo non significa, in certe situazioni e come ultima ratio, non essere disposti a sostenere la resistenza contro un aggressore e un invasore. Lo scopo finale e principale, però, dovrebbe quasi sempre essere quello di promuovere e sostenere le trattative per la pace, cercando una mediazione realistica tra le parti. 

La pace non la si fa con gli amici, ma sedendosi a un tavolo con i nemici, ascoltando le loro ragioni e argomentazioni, anche se ci possono apparire e sono profondamente sbagliate, nella speranza che la pace che ne consegue possa essere la più giusta possibile, o il minore dei mali che possiamo realisticamente sperare di ottenere.


lunedì 21 febbraio 2022

Negazionismo, verità e democrazia

(da laRegione del 18 febbraio 2022)

Ci sono stati ed esistono tuttora no-vax, no-mask, terrapiattisti, persone che negano il cambiamento climatico. Non che esista una coerenza interna tra i negazionismi. Ognuno può, volendo, prendere dal sapere scientifico ciò che più gli risulta utile a confermare e rinforzare la sua personale e soggettiva visione del mondo, rifiutando le altre conoscenze riconosciute come vere quando non gli convengono. Non tutti i no-mask sono per forza terrapiattisti, così come si può credere che il cambiamento climatico esista negando al contempo l’efficacia di una vaccinazione.

La negazione dei fatti, della loro dimostrazione e interpretazione da parte dei saperi e delle scienze socialmente riconosciute solleva però due ordini di problemi strettamente connessi tra di loro: uno di carattere conoscitivo, di ciò che crediamo essere vero e reale, e uno di carattere etico e politico.

Non si vuole negare l’opportunità di discutere pubblicamente se l’obbligo di indossare la mascherina e di essere in possesso del certificato Covid siano misure eticamente giustificabili e proporzionali in una pandemia. Il dibattito e il confronto democratico può però diventare costruttivo solo se vi sono dei presupposti conoscitivi condivisi e reputati perlopiù veri, quali ad esempio l’utilità delle mascherine e della vaccinazione per affrontare una malattia infettiva, l’inefficacia di altri metodi di prevenzione e cura alternativi, il fatto che un virus possa non essere una semplice influenza stagionale e che una pandemia non sia una costruzione sociale e politica.

Questo vale anche per la questione ecologica. Possiamo dibattere e confrontarci sul futuro nostro e delle nuove generazioni, decidere quali misure implementare, come modificare le nostre abitudini e limitare certe libertà solo se crediamo che il cambiamento climatico esista e sia causato dall’uomo.

La discussione pubblica forse sarebbe meglio non basarla solo sulle nostre percezioni e intuizioni soggettive. Rischiano infatti sempre di esserci delle persone che sosteranno che per le loro percezioni e intuizioni il problema non sussiste (“questo inverno, così come la scorsa estate, non era poi così caldo…”). Le percezioni e intuizioni soggettive non ci permettono infatti di cogliere sempre la realtà delle cose, altrimenti avrebbero ragione i terrapiattisti, visto che quasi nessuno, tranne gli astronauti, percepisce immediatamente la terra come rotonda.

Se in democrazia la posizione di chi basa le sue valutazioni etiche e politiche su delle conoscenze il più possibili oggettive e dimostrate dovesse avere lo stesso valore di verità della posizione di chi nega che queste conoscenze siano vere, la verità e la giustizia sarebbero solo l’opinione della maggioranza, anche se questa fosse falsa e sbagliata. A scuola si potrebbero così iniziare ad insegnare le “verità” del terrapiattismo, del creazionismo religioso al posto dell’evoluzionismo darwiniano, la credenza che il cambiamento climatico non sia causato dagli esseri umani e che quindi si può anche non fare nulla.

È proprio all’interno di questo processo radicalmente egualitario e individualista, nel quale ogni opinione ha lo stesso valore di verità, che la liberal-democrazia potrebbe rovesciarsi nel suo opposto e trasformarsi, questa volta realmente, in una società autoritaria e dittatoriale.

Se non si crede che possano esserci conoscenze oggettivamente vere, in quanto conformi ad una realtà dei fatti indipendenti dalla nostra soggettività, allora rischiano di vincere le ragioni dei più furbi e/o dei più forti, di coloro che riescono a convincerci meglio manipolando con la loro propaganda la realtà. Possono così venire negati, in nome di interessi personali, economici, politici e ideologici, l’esistenza di un virus e/o della sua pericolosità, e del cambiamento climatico (nota bene: non che dietro alla produzione e distribuzione di mascherine, vaccini, batterie elettriche, pannelli solari non vi possano essere interessi economici e politici, ma queste non sono ragioni sufficienti per negare la realtà con i suoi problemi e i possibili metodi disponibili per risolverli).

Ciò non significa arrivare al punto di limitare la libertà di credenza, espressione ed azione ai vari negazionismi, perlomeno fino a quando il male e il danno lo causano principalmente a sé stessi, e non agli altri e alla collettività, e fino a quando rimangono minoranze. Altrimenti lo stato non avrebbe il dovere di intervenire per proteggere i nostri diritti, la nostra salute e il nostro benessere attuale e futuro restringendo sempre di più le nostre libertà?

La speranza è che per avere fiducia nei saperi e nelle scienze dimostrate e socialmente riconosciute continueranno ad essere sufficienti una corretta, adeguata ed efficace informazione, educazione e trasmissione della cultura e delle conoscenze. Altrimenti l’ideale illuminista potrebbe rovesciarsi nel suo contrario, e non ci resterebbe che auspicare l’avvento di una dittatura illuminata.



domenica 13 febbraio 2022

L'inefficacia del radicalismo nella lotta per i diritti degli animali

La sonora bocciatura odierna dell’iniziativa contro la sperimentazione animale e umana era prevedibile. C’è infatti spesso un problema di ordine generale nelle lotte per i diritti degli animali: sono espressioni di un radicalismo inaccettabile per la stragrande maggioranza della popolazione, risultando quindi inefficaci nel loro tentativo di diminuire le sofferenze degli animali non umani.

La filosofia dell’antispecismo, che sostiene che non vi sia alcuna differenza sostanziale né superiorità morale tra gli esseri umani e le altre specie animali, è innanzitutto, prima che politica, una rivoluzione antropologica. Siamo una specie che per molto tempo, e ancora oggi, crede di essere unica e speciale rispetto alle altre forme di vita, nonostante il sapere scientifico abbia dimostrato da tempo l’illusorietà di queste pretese.

Ma le credenze sedimentate nella nostra storia culturale, anche se sono in contrasto con quanto sappiamo essere vero, sono difficili da modificare. Basti pensare quanto ancora oggi facciamo fatica ad accettare la verità dell’evoluzionismo darwiniano e il fatto che siamo parte della stessa famiglia biologica delle grandi scimmie. O quanto il fatto di mangiare carne come concausa del cambiamento climatico rimanga un problema perlopiù rimosso dal dibattito pubblico e confinato nel privato. O quanto la nostra mente abbia fatto fatica ad accettare che un impercettibile virus sia stato in grado di sconvolgere le nostre esistenze, arrivando a negare la realtà della natura e a costruire narrazioni complottistiche che rimettono al centro l’essere umano come causa di tutto.

Proprio per questo a livello politico se si volessero ottenere dei risultati per il benessere e i diritti degli animali sarebbe forse meglio essere meno radicali. Le trasformazioni antropologiche richiedono tempo. Non sarebbe stata preferibile ad esempio, e anche più giustificata eticamente, un’iniziativa volta non a vietare del tutto la sperimentazione sugli animali, ma a regolamentare al meglio questa sperimentazione, autorizzandola sempre e solo in caso di necessità e riducendo il più possibile la loro sofferenza?

sabato 12 febbraio 2022

Scienza e opinioni attorno alle vaccinazioni

Trasmissione "Millevoci"della Rete Uno della Radiotelevisione Svizzera Italiana del 28 luglio 2021. Ascolta qui.