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lunedì 1 giugno 2009

Essere stranieri, essere cittadini.

(da "Il Dialogo", giugno 2009)

Se il discorso pubblico sul senso della cittadinanza per la popolazione straniera verte unicamente sulla domanda "a chi concediamo la cittadinanza?", intesa come concessione della nazionalità elvetica, allora i criteri del discorso si baseranno unicamente sui requisiti di accesso necessari per includere "loro", gli stranieri, nel mondo sociale, culturale e civile del "Noi", inteso come Popolo. In tal modo il discorso rimane fondamentalmente ancorato al punto di vista degli autoctoni, alla rivendicazione, da parte del Popolo, dei caratteri distintivi che lo costituiscono, i valori e la cultura che starebbero a fondamento del legame nazionale che unisce i cittadini dello stato.
Una buona parte degli stranieri può così stare al gioco, perché, per sentirsi parte dell'identità collettiva del paese d'accoglienza, farà di tutto per assimilare la cultura nazionale del paese, rimuovendo magari la propria cultura d'origine, dimostrando a se stessi ed agli altri di essere "più svizzeri degli svizzeri". D'altro canto, il difficile accesso alla cittadinanza può produrre anche effetti opposti, riluttanza da parte dello straniero nell'accettare le condizioni di accesso alla cittadinanza, secondo il motto "se è questo che volete da me, e in questo modo mi volete giudicare, allora tenetevi la vostra cittadinanza!". Il risultato di questo processo sociale lo si nota nella percentuale di stranieri residenti, che in Svizzera supera il 20% della popolazione complessiva, percentuale fra le più elevate in Europa, dovuta principalmente alle difficili condizioni di accesso alla cittadinanza elvetica.
A questo punto può sorgere spontanea la domanda su quale senso di cittadinanza sia portatore il 20% della popolazione, esclusa dalla piena cittadinanza democratica in Svizzera. Chi giunge oggi in Svizzera a partire da un progetto di migrazione volontaria per ragioni lavorative rimane perlopiù ancorato alla cultura, e quindi al senso di cittadinanza, del suo paese d'origine. Come avveniva già in passato, il migrante che abbandona il suo paese d'origine per trovare lavoro altrove spesso pensa realisticamente di ritornare in patria. Discorso diverso per i rifugiati politici e per i richiedenti l'asilo: sono migranti, come nel caso dei rifugiati, che fuggono da persecuzioni dirette nei loro confronti da parte delle autorità statali del loro paese d'origine, e sono dunque persone senza più nazione di appartenenza; oppure sono migranti, come nel caso degli altri profughi, che fuggono da situazioni di guerra e di violenza generalizzata, paesi per i quali si fatica ad immaginare un futuro prossimo di pace e sviluppo. Profughi e rifugiati immaginano così la loro cittadinanza nella loro nazione d'origine in un futuro lontano, futuro nel quale i rifugiati potranno forse un giorno riottenere accesso alla cittadinanza e i profughi di guerra ricominciare la ricostruzione di un paese distrutto.
Ma questa assenza di cittadinanza di profughi e rifugiati non potrebbe forse valere, alla lunga, anche per i Gastarbeiter? Non è forse vero che spesso l'immigrato che arriva per lavoro e pensa di ritornare nel suo paese d'origine alla fine finisce per rimanere in Svizzera? E anche lui, emigrato per lavoro, alla fine non finisce per idealizzare una patria, come i rifugiati e i profughi, che non esiste più, perché quando vi ritorna dopo aver vissuto per anni in un paese straniero non si riconosce più nella realtà politica, sociale e culturale del paese dal quale è emigrato?
Se pensiamo alla cittadinanza come appartenenza ad uno stato-nazione, costruita a partire da un'identità condivisa fondata su valori ed una cultura comuni, allora spesso gli stranieri si muovono tra l'idealizzazione di una patria lontana e le difficoltà di accettazione e di accesso ad una nuova cittadinanza nel paese d'accoglienza. Oppure possono vivere la questione come assenza di cittadinanza e assenza d'identità nazionale.

Per uscire da questa impasse si rende necessario un ripensamento del concetto di cittadinanza, non più legata ad un'identità nazional-popolare fondata su dei valori ed un cultura supposti originari di un paese, ma basata su una visione universale e cosmopolita, dove il senso etico della cittadinanza è fondato sul valore comune dell'essere umano. Una cittadinanza interculturale e globale, che può già sin d'ora concretizzarsi all'interno di uno stato-nazione come la Svizzera, dove l'identità condivisa può essere data da una cultura comune complessa costruita dalle varie provenienze culturali dei cittadini che la compongono. Infine, mi sembra essere l'unica via per preservare quell'identità comune svizzera che si chiama democrazia, affinché si possa finalmente dare voce a quel 20% di popolazione residente che non ha diritto di parola.