Si tende perlopiù a parlare di “burqa”, anche se bisognerebbe
innanzitutto distinguere tra “hijab”, il velo che copre solo i capelli,
“niqab”, il velo che copre anche il viso ma non gli occhi, e “burqa”, che copre
invece pure gli occhi.
In ogni caso, il 22 settembre 2013 il 65% del popolo
ticinese accetta l’iniziativa che inserisce nella costituzione cantonale il “divieto
di dissimulare o nascondere
il proprio viso nelle vie pubbliche e nei luoghi aperti al pubblico o destinati
ad offrire un servizio pubblico”. La proposta di legge, per
non essere discriminatoria nei confronti di un determinato gruppo sociale minoritario,
vieta a tutti i cittadini, e quindi non solo alle “donne con il burqa”, di
coprirsi il volto in tutti i luoghi pubblici: non solo in scuole, ospedali,
banche, negozi, ma anche in piazze, strade, cinema, teatri e stadi. L’articolo
costituzionale, prima di poter entrare in vigore, è in attesa di ottenere il
beneplacito delle camere federali.
Ma si tratta veramente di un “problema reale”, o perlomeno prioritario,
per la società ticinese? Probabilmente no, visto che le donne che girano con il
viso coperto residenti in Ticino si contano sulle dita di una mano. Che bisognasse
creare un articolo costituzionale apposito per affrontare un problema che
concerne due o tre donne con il “niqab” è quantomeno opinabile (di donne con il
“burqa” invece non se ne sono mai viste). Immaginiamo però che i fautori del
divieto sosterebbero che si tratta di una legge preventiva, in vista di un
possibile arrivo in massa nei prossimi anni di “donne col viso coperto”. Purtroppo,
o per fortuna, questa previsione non ha alcun fondamento scientifico, nessuna
invasione è prevista.
La stragrande maggioranza delle donne che vediamo con il “niqab” sulle
nostre strade sono ricche turiste provenienti dall’area del Golfo, perlopiù saudite,
che trascorrono le loro vacanze tra la Via Nassa e i nostri alberghi cinque
stelle, convinte a venire in Ticino da una buona attività promozionale nei loro
paesi da parte del nostro ente turistico.
Il popolo ticinese ha quindi innanzitutto votato una legge che è in
contrasto con il suo interesse economico preponderante, l’utile dato dal denaro
che queste turiste del Golfo spendono in Ticino. Ma probabilmente il dibattito
su un problema (quasi) del tutto inesistente è segno di qualcos’altro, di un radicato
disagio nei confronti di una società multiculturale, oltre che di un forte
pregiudizio, diventato paranoia, nei confronti delle persone di fede musulmana.
Al di là delle riflessioni di carattere più psicologico e sociologico
sul perché il popolo ticinese debba “perdere tempo” per affrontare “l’invasione
delle donne col burqa”, proviamo però a confrontarci direttamente con le
argomentazioni dei sostenitori del divieto.
Prima argomentazione:
“coprirsi il volto non fa parte della nostra cultura”.
La questione essenziale da affrontare è come ci comportiamo, in quanto
società, di fronte ad una donna che decide liberamente, di sua spontanea
volontà, di indossare il “niqab” o il “burqa”. Se fosse costretta a indossarli,
infatti, non sarebbe necessaria alcuna legge “anti-burqa”, avremmo già
sufficienti mezzi legali per intervenire (sarebbe un atto di violenza e
sottomissione di un cittadino da parte di un altro cittadino, un mancato
rispetto della libertà dell’individuo e della sua autonomia, ecc.).
Incontrare una donna con il volto coperto ci può mettere a disagio, e
creare in noi un effetto di spaesamento e di disorientamento: non ci siamo
abituati, non fa parte dei nostri usi, costumi e abitudini. Ma che un’usanza
non sia parte della nostra cultura è una ragione sufficiente per vietarla? Per
i sostenitori della “legge anti-burqa” presumiamo di sì.
Ma vogliamo veramente vivere in una società nella quale la maggioranza
della popolazione e lo Stato hanno la facoltà di decidere su come bisogna vestirsi,
su come girare in strada, in cosa credere, sugli usi e costumi di tutti? Non è
questo un attentato alla libertà, all’uguaglianza (nella libertà), ai principi
liberali che stanno a fondamento della nostra cultura? Che male fa agli altri
cittadini una donna che di sua spontanea volontà decide di coprirsi il volto?
Sicuramente non ci limita nella nostra, di libertà. Posso non condividere la
sua scelta, volendo mi può anche dare fastidio, ma perché le devo imporre un
divieto pubblico assoluto?
Pensiamo all’attuale moda dei tatuaggi. Provengono da culture tribali del
tutto distanti dalla nostra. Saremmo veramente disposti ad accettare una legge
che vieti di mostrare qualsivoglia tatuaggio nei luoghi pubblici, perché non fanno
parte della nostra cultura, perché non condivido la scelta di chi si tatua,
anzi vedere sti tatuati mi dà pure fastidio, e a limitare di conseguenza la loro
libertà individuale? Perché il tatuaggio sì e il “niqab” no?
Seconda argomentazione: “scoprirsi
il volto nei luoghi pubblici è una questione di reciprocità che deve valere per
tutti”.
I fautori della legge sostengono che le persone nella nostra società devono
essere “viste in faccia”, e questo principio deve valere per tutti. Ora, si può
anche convenire che in determinati luoghi è necessario che tutti “mostrino il
volto” per ragioni di sicurezza, ad esempio in una banca o in un negozio. Ma l’iniziativa
che è stata accettata impone di “scoprire il volto” in tutti i luoghi pubblici.
Per banche e negozi bastava creare una disposizione legale specifica.
In nome della parità di trattamento e dell’uguaglianza nella libertà,
potrebbe quindi anche essere corretto chiedere alle “donne con il viso coperto”
di togliersi il copricapo in banca o al distributore di benzina, se anche io
devo togliermi il casco quando ci entro. Ma, per coerenza, se d’ora in poi
chiederemo a qualche donna di “togliere il burqa” sulle nostre piazze e sulle nostre
strade, allora anche io non potrò più girare in inverno, se fa freddo, con il
passamontagna, ma neanche con la cuffia e la sciarpa sulla faccia (coperture del
tutto simili al “niqab”). Siamo veramente disposti a limitare a tal punto la
nostra libertà?
I fautori della legge liberticida sostengono inoltre che la reciprocità
non dovrebbe valere solo all’interno della nostra di società, ma anche tra la
nostra di società e le società dalla quale provengono le “donne col viso
coperto”. Se io mi reco nei loro paesi non devo anche io adeguarmi ai loro usi
e costumi, e di conseguenza loro non devono adeguarsi ai nostri quando vengono
da noi? Ma alla base della nostra di società non vi è innanzitutto la libertà
di parola e espressione? Se io mi reco in Arabia Saudita non posso probabilmente
vestirmi come voglio né sicuramente dire tutto ciò che penso. Ma è questo un
motivo valido per limitare la libertà di espressione e di parola ad una saudita
quando viene qui da noi?
Terza argomentazione:
“coprirsi il volto nei luoghi pubblici crea un problema di sicurezza”.
Se si poteva forse anche convenire su una specifica disposizione legale che
imponesse a tutti di scoprirsi il volto in determinati luoghi quali banche e
negozi, molto più difficile invece è giustificare in nome della sicurezza il
divieto generalizzato di coprirsi il volto in tutti i luoghi pubblici. Per
coerenza e parità di trattamento dovremmo toglierci passamontagna, sciarpa e
cuffia quando fa freddo, ma anche gli sciatori e i giocatori di hockey pongono
problemi, per non parlare del carnevale.
Ora, è proprio rispetto all’argomentazione della sicurezza che i fautori
della legge rasentano il ridicolo: nessun criminale dotato di un minimo livello
di intelligenza, che sia un ladro o mettiamo pure un terrorista, indosserebbe
mai un “burqa” per commettere un furto o un attentato in Ticino. Il carnevale
inoltre crea potenzialmente molti più problemi di sicurezza che le “donne col
burqa”, e quindi non sarebbe il caso di vietare le maschere?
Quarta argomentazione: “il
burqa va vietato perché le donne che lo indossano sono sottomesse ai loro
mariti, vittime di violenza domestica”.
I sostenitori dell’iniziativa potrebbero infine ancora argomentare che con
la legge si intende prevenire e contrastare la violenza di cui queste donne
sono vittime, si vuole “liberarle” dalla loro sottomissione ad una cultura
maschilista e patriarcale.
Questo ragionamento dovrebbe valere anche per le donne che si coprono il
viso di loro spontanea volontà, “imponendo loro la libertà” con un divieto? E talune
delle nostre, di donne, che si rifanno più o meno completamente il volto e il
corpo tramite il bisturi della chirurgia estetica, non sono anche loro
sottomesse ai desideri di una società maschilista che le riconosce
essenzialmente e quasi esclusivamente come meri corpi? Difficile dire se sia
meglio o peggio coprirsi il volto o farselo rifare più volte da un chirurgo, è
innanzitutto una questione di gusto personale. Ma perché alle prime il gesto
deve essere vietato con la forza?
E per le donne che sono costrette a “coprirsi il volto” contro la loro
volontà? Al di là del fatto che non era
necessaria una “legge anti-burqa” per intervenire legalmente e penalmente in
questi casi, la legge è veramente efficace per aiutarle e per contrastare la
violenza a cui sono sottoposte? Una delle ragioni per la quale il marito le
impone di coprirsi il volto è anche per “non farsi vedere dagli altri uomini”.
Il risultato più probabile che ottengo con la legge sarà quindi l’opposto di
quello che (forse) auspicavo: tale donna dovrà molto probabilmente restare rinchiusa
in casa, senza più neppure la possibilità di poter uscire, con la relativa
intensificazione della violenza a cui è sottoposta.
Se l’articolo costituzionale verrà approvato dalle camere federali, i
giuristi avranno in ogni caso il loro bel da fare per regolamentare tutte le possibili
e molteplici eccezioni, dal carnevale alla “sciarpa e cuffia quando fa freddo”
fino ai nostri giocatori di hockey. Rimarrà con ogni probabilità un unico
divieto, intrinsecamente discriminatorio, che sarà imposto solo a due o tre
donne residenti, visto che di turiste saudite non ce ne saranno più.
In Svizzera ogni giorno si verificano in media circa 44 reati di
violenza domestica (dati 2012). Si stima inoltre che il 10-20% delle donne in
età adulta abbia subito almeno una volta nella vita violenza in famiglia.
Praticamente nessuna di queste donne indossa il “niqab”, ma troppi pochi sono i
voti che si guadagnano sollevando questo problema.