(da “Ground Zero /Frontiere”, n 5., ottobre 2013)
Post-moderno e utopia
Nell’epoca
post-moderna e post-industriale, del consumo e del controllo, pare tramontata
qualsiasi possibilità di una trasformazione sociopolitica radicale
dell’esistente. Svanite le grandi narrazioni alternative, la Storia sembra
giunta al suo termine, l’utopia realizzata del tecno-bio-capitalismo
neoliberale. I problemi a cui la politica deve rispondere sono solo ancora dettati
dalle necessità del qui e ora, in nome di una buona amministrazione del tempo
presente: come gestire al meglio l’accesso al consumo della popolazione
mondiale e le sue risorse, trasformando gli enti (dagli oggetti inanimati agli
esseri umani) in merci-simulacri che, in quanto oggetti del desiderio,
sarebbero occasioni di godimento e felicità per soggettività a loro volta
(de-)costruite all’interno del circolo del consumo tardocapitalistico. E, per
gli scarti e i rifiuti umani che non hanno sufficiente potere d’acquisto per
accedere al tavolo del consumo, far funzionare efficacemente la biopolitica
dell’igiene sociale, rendendoli docili e innocui. Semmai saranno potenziali
piccoli criminali da controllare e da stigmatizzare nella loro devianza
(eventualmente nella loro diversità culturale), sempre che non abbiano già
introiettato il rapporto di dominio e accettato di buon grado la loro servitù
volontaria.
La
grande Storia sembra però non avere più ragion d’essere e di continuare il suo
cammino neanche per coloro che si indignano di fronte alle miserie del tempo presente
e che scorgono i risvolti distopici dell’utopia realizzata. Indignazione che,
in assenza di un orizzonte utopico da cui trarre potenza per modificare il
reale, diviene mera testimonianza del torto morale, che non può che
trasformarsi prima o poi in rassegnazione, e poi via a coltivare la felicità nel
proprio giardino. Si possono mettere cerotti sulle ferite, si può rendere il
controllo sociale più giusto e la guerra più umana, atti meritevoli, certo, che
rischiano però di mai scalfire le cause né di prevenire le sofferenze. (…)
Terminata
l’epoca della rappresentazione storica della modernità, fondata su un utopico
tempo futuro a cui doveva tendere l’umanità, rimane solo il tempo presente
dell’utopia/distopia realizzata delle tecnocrazie e del libero mercato
contemporanee. Non vi sono quindi più ideali da conquistare (se non quelli del
passato supposti originari a cui tornare, i valori “tradizionali” quali patria
e famiglia), essendo ciò che ha ancora valore a disposizione nel tempo
presente: l’oggetto del desiderio, la Merce, in qualità di occasione di
gratificazione nel qui e ora. Il futuro, allora, si mostrerà solo come attesa
di un’altra occasione di consumo nel presente e del presente. Niente ideali a
cui sacrificarsi, e in nome dei quali rinviare la soddisfazione del desiderio,
essendo la felicità, nel migliore dei mondi possibili, a disposizione di
chiunque, sempre che questo chiunque sia all’altezza della Legge del godimento
imposta dal Capitale.
Il
post-moderno come concetto e come epoca, come tutti i “post-“, rivela da un
lato la sua intrinseca debolezza nel pensare la trasformazione autentica del
reale, così come dall’altro è sintomo della malattia del contemporaneo: si
chiama “post-“ perché non sappiamo come rappresentarci un altro futuro possibile
che dovrebbe delinearsi nel presente. L’epoca post-moderna, espressione del
tardo-capitalismo, è la chiusura del possibile che ci permette solo di ripetere
il passato (nell’etica come nell’estetica) e di cogliere il presente così come
ci viene presentato dal sistema.
La
questione, a questo punto, è come rilanciare la critica al presente e riaprire
l’orizzonte utopico come potenzialità di trasformazione del reale senza
ripetere il passato. Questo sia perché le utopie passate hanno perso e quindi prosciugata
è la loro forza (dal punto di vista dell’efficacia così come del loro
fallimento morale), sia perché non pare possibile, oggi, rilanciare un ideale
escatologico moderno in nome del quale sacrificarsi nel presente e
dialetticamente rinviare il godimento in un futuro lontano (troppo forte in
ogni caso è il richiamo della felicità proposto dal sistema). Il programma non
può che fondarsi allora che sulla critica dell’attuale illusorio appagamento e
sulla possibilità di godere del desiderio utopico di trasformazione del
presente.
Distopie del presente
Il tardo-capitalismo
come globalizzazione neoliberista si propone come termine ultimo della Storia,
utopia realizzata del mondo moderno oppure, più “realisticamente”, come il
miglior modo di gestione e di amministrazione del presente. Le alternative, si
dice, sono sicuramente peggio, reazionarie e totalitarie, in ogni caso lesive
delle libertà dell’individuo e delle sue possibilità di “farsi una propria
vita”. Il libero mercato è garante della libertà di scelta e delle relative
costruzioni di identità. Il bio-tecno-capitalismo è il motore che ci
propone/impone le scelte e ci intima a costruire identità funzionali alla sua
riproduzione, in vista di una felicità nel qui e ora. (…)
L’utopia
supposta realizzata si trasforma così nell’attuale distopia. Il circolo utopico
virtuoso che dovrebbe permettere godimento e libertà diviene un circolo
distopico vizioso all’interno del quale il nichilismo del sistema si mostra nel
suo potere di annientamento del reale, del suo senso e delle soggettività
costrette a stare al passo coi tempi. Le cose non si producono più affinché
durino nel tempo, si possano conservare e consegnare alle generazioni future
(un tavolo, un’auto, una casa,…), in nome della costruzione individuale e
collettiva di un futuro di benessere e felicità. Le cose si producono in vista
del loro consumo nel tempo presente, occasioni effimere di godimento nel qui e
ora secondo l’adagio dell’usa e getta che per funzionare deve conquistare
sempre nuove fette di mercato, riducendo ogni ente a merce da desiderare e poi
scartare. (…)
Ma
ciò che vale per le cose, vale anche per le persone. La cura delle anime e la ricerca
di se stessi non è più fondata su una supposta essenza ideale della persona che
le donerebbe identità, senso e appartenenza all’interno di una presupposta armonia
del mondo e/o della storia individuale e collettiva. Il “sii te stesso” oggi è
fondato sulla (de-)costruzione continua delle identità, sulla possibilità di
essere questo e poi quell’altro e contemporaneamente questo e quell’altro solo
e unicamente se l’identità che ho deciso di darmi è funzionale alla mia ricerca
di felicità nel tempo presente. Non più un’identità stabile e duratura, da
costruire nel tempo e per sempre (uno studio, un lavoro, un amore, una famiglia
per sempre…) ma delle identità parziali, temporanee e componibili da
modificare, smaltire e ricreare quando non sono più occasione di godimento nel
processo del consumo (formazione continua, lavoro a termine, amore liquido,
famiglie multiple,…). (…)
La
distopia del contemporaneo si rivela quindi nello spaesamento di un individuo che
sopravvive all’interno di un mondo nel quale nulla ha più senso se non il
significante del capitale, individuo che si ritrova di fronte al nulla della
sua provenienza e della sua destinazione, non essendoci più identità e valori a
cui ritornare e da riconquistare, se non l’ultimo valore rimasto, la Merce, che
anche io posso/debbo diventare per continuare a rimanere qualcuno. (…)