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martedì 1 ottobre 2013

(Im)possibilità dell'utopia


(da “Ground Zero /Frontiere”, n 5., ottobre 2013)


Post-moderno e utopia

Nell’epoca post-moderna e post-industriale, del consumo e del controllo, pare tramontata qualsiasi possibilità di una trasformazione sociopolitica radicale dell’esistente. Svanite le grandi narrazioni alternative, la Storia sembra giunta al suo termine, l’utopia realizzata del tecno-bio-capitalismo neoliberale. I problemi a cui la politica deve rispondere sono solo ancora dettati dalle necessità del qui e ora, in nome di una buona amministrazione del tempo presente: come gestire al meglio l’accesso al consumo della popolazione mondiale e le sue risorse, trasformando gli enti (dagli oggetti inanimati agli esseri umani) in merci-simulacri che, in quanto oggetti del desiderio, sarebbero occasioni di godimento e felicità per soggettività a loro volta (de-)costruite all’interno del circolo del consumo tardocapitalistico. E, per gli scarti e i rifiuti umani che non hanno sufficiente potere d’acquisto per accedere al tavolo del consumo, far funzionare efficacemente la biopolitica dell’igiene sociale, rendendoli docili e innocui. Semmai saranno potenziali piccoli criminali da controllare e da stigmatizzare nella loro devianza (eventualmente nella loro diversità culturale), sempre che non abbiano già introiettato il rapporto di dominio e accettato di buon grado la loro servitù volontaria.

La grande Storia sembra però non avere più ragion d’essere e di continuare il suo cammino neanche per coloro che si indignano di fronte alle miserie del tempo presente e che scorgono i risvolti distopici dell’utopia realizzata. Indignazione che, in assenza di un orizzonte utopico da cui trarre potenza per modificare il reale, diviene mera testimonianza del torto morale, che non può che trasformarsi prima o poi in rassegnazione, e poi via a coltivare la felicità nel proprio giardino. Si possono mettere cerotti sulle ferite, si può rendere il controllo sociale più giusto e la guerra più umana, atti meritevoli, certo, che rischiano però di mai scalfire le cause né di prevenire le sofferenze. (…)

Terminata l’epoca della rappresentazione storica della modernità, fondata su un utopico tempo futuro a cui doveva tendere l’umanità, rimane solo il tempo presente dell’utopia/distopia realizzata delle tecnocrazie e del libero mercato contemporanee. Non vi sono quindi più ideali da conquistare (se non quelli del passato supposti originari a cui tornare, i valori “tradizionali” quali patria e famiglia), essendo ciò che ha ancora valore a disposizione nel tempo presente: l’oggetto del desiderio, la Merce, in qualità di occasione di gratificazione nel qui e ora. Il futuro, allora, si mostrerà solo come attesa di un’altra occasione di consumo nel presente e del presente. Niente ideali a cui sacrificarsi, e in nome dei quali rinviare la soddisfazione del desiderio, essendo la felicità, nel migliore dei mondi possibili, a disposizione di chiunque, sempre che questo chiunque sia all’altezza della Legge del godimento imposta dal Capitale.

Il post-moderno come concetto e come epoca, come tutti i “post-“, rivela da un lato la sua intrinseca debolezza nel pensare la trasformazione autentica del reale, così come dall’altro è sintomo della malattia del contemporaneo: si chiama “post-“ perché non sappiamo come rappresentarci un altro futuro possibile che dovrebbe delinearsi nel presente. L’epoca post-moderna, espressione del tardo-capitalismo, è la chiusura del possibile che ci permette solo di ripetere il passato (nell’etica come nell’estetica) e di cogliere il presente così come ci viene presentato dal sistema.

La questione, a questo punto, è come rilanciare la critica al presente e riaprire l’orizzonte utopico come potenzialità di trasformazione del reale senza ripetere il passato. Questo sia perché le utopie passate hanno perso e quindi prosciugata è la loro forza (dal punto di vista dell’efficacia così come del loro fallimento morale), sia perché non pare possibile, oggi, rilanciare un ideale escatologico moderno in nome del quale sacrificarsi nel presente e dialetticamente rinviare il godimento in un futuro lontano (troppo forte in ogni caso è il richiamo della felicità proposto dal sistema). Il programma non può che fondarsi allora che sulla critica dell’attuale illusorio appagamento e sulla possibilità di godere del desiderio utopico di trasformazione del presente.


Distopie del presente

Il tardo-capitalismo come globalizzazione neoliberista si propone come termine ultimo della Storia, utopia realizzata del mondo moderno oppure, più “realisticamente”, come il miglior modo di gestione e di amministrazione del presente. Le alternative, si dice, sono sicuramente peggio, reazionarie e totalitarie, in ogni caso lesive delle libertà dell’individuo e delle sue possibilità di “farsi una propria vita”. Il libero mercato è garante della libertà di scelta e delle relative costruzioni di identità. Il bio-tecno-capitalismo è il motore che ci propone/impone le scelte e ci intima a costruire identità funzionali alla sua riproduzione, in vista di una felicità nel qui e ora. (…)

L’utopia supposta realizzata si trasforma così nell’attuale distopia. Il circolo utopico virtuoso che dovrebbe permettere godimento e libertà diviene un circolo distopico vizioso all’interno del quale il nichilismo del sistema si mostra nel suo potere di annientamento del reale, del suo senso e delle soggettività costrette a stare al passo coi tempi. Le cose non si producono più affinché durino nel tempo, si possano conservare e consegnare alle generazioni future (un tavolo, un’auto, una casa,…), in nome della costruzione individuale e collettiva di un futuro di benessere e felicità. Le cose si producono in vista del loro consumo nel tempo presente, occasioni effimere di godimento nel qui e ora secondo l’adagio dell’usa e getta che per funzionare deve conquistare sempre nuove fette di mercato, riducendo ogni ente a merce da desiderare e poi scartare. (…)

Ma ciò che vale per le cose, vale anche per le persone. La cura delle anime e la ricerca di se stessi non è più fondata su una supposta essenza ideale della persona che le donerebbe identità, senso e appartenenza all’interno di una presupposta armonia del mondo e/o della storia individuale e collettiva. Il “sii te stesso” oggi è fondato sulla (de-)costruzione continua delle identità, sulla possibilità di essere questo e poi quell’altro e contemporaneamente questo e quell’altro solo e unicamente se l’identità che ho deciso di darmi è funzionale alla mia ricerca di felicità nel tempo presente. Non più un’identità stabile e duratura, da costruire nel tempo e per sempre (uno studio, un lavoro, un amore, una famiglia per sempre…) ma delle identità parziali, temporanee e componibili da modificare, smaltire e ricreare quando non sono più occasione di godimento nel processo del consumo (formazione continua, lavoro a termine, amore liquido, famiglie multiple,…). (…)

La distopia del contemporaneo si rivela quindi nello spaesamento di un individuo che sopravvive all’interno di un mondo nel quale nulla ha più senso se non il significante del capitale, individuo che si ritrova di fronte al nulla della sua provenienza e della sua destinazione, non essendoci più identità e valori a cui ritornare e da riconquistare, se non l’ultimo valore rimasto, la Merce, che anche io posso/debbo diventare per continuare a rimanere qualcuno. (…)