(da "Rivista per le Medical Humanities", gennaio-marzo 2010)
Prologo: nostalgie
«Nostalgia» è una parola che è stata
coniata, originariamente, per comprendere il fenomeno della migrazione, cioè
quel «dolore» (álgos) che taluni
migranti possono patire quando desiderano il «ritorno» (nóstos) a casa, in patria.
Nasce nel 1688, quando Johannes Hofer,
giovane studente in medicina all’Università di Basilea, presenta una
dissertazione dal titolo «Dissertatio medica de nostalgia»[1].
L’obiettivo era quello di rendere possibile un discorso scientifico su quel che
il linguaggio comune dell’area tedescofona aveva fino ad allora chiamato
«Heimweh» (dolore per la «Heimat», la casa, la patria). Di «Heimweh» pativano
infatti soprattutto i soldati svizzeri che, lontani da casa, vivevano in lontane
guarnigioni, in paesi stranieri così diversi dai loro villaggi montani. A causa
della «nostalgia» si pativa, si disertava, si moriva; e per questo andava
«curata».
In seguito la parola «nostalgia»
abbandonerà progressivamente i linguaggi medico-scientifici per entrare nel
linguaggio comune[2],
esprimendo, a partire dal Romanticismo, un sentimento caro a poeti e scrittori.
Passerà così da quel «dolore specifico legato al desiderio di ritorno a casa
dei migranti» a un sentimento che esprimerà sempre più la separazione e la
perdita di una casa immaginaria e di un’infanzia idealizzata, fino a diventare
un desiderio di ritorno verso un assoluto che l’essere umano avrebbe smarrito,
un paradiso perduto, una patria celeste, una Gerusalemme mistica[3]. Oltre
alle sue declinazioni poetiche e metafisiche, si possono però annotare anche le
declinazioni più squisitamente politiche, sociali e culturali della nostalgia,
cioè quei «desideri di ritorno» a una patria e a un suolo originari e la
rispettiva volontà di affermazione di identità linguistico-culturali, sociali e
politiche comuni che sono stati essenziali per la costruzione dello
stato-nazione[4].
Questi desideri sono fondamentali ancora oggi per comprendere la relazione tra
cittadini dello stato-nazione e stranieri, e le loro rispettive «nostalgie».
Parlare di migrazione e di stranieri
significa infatti anche parlare di noi, cittadini dello stato-nazione, a
partire da quel presupposto che coglie nei linguaggi e nei discorsi vertenti
sull’immigrazione una «funzione-specchio» per comprendere il funzionamento del
sistema sociale, culturale e politico del paese d’immigrazione. Il pensiero
della migrazione è un «pensiero di stato»[5] che, per
pensare gli stranieri, deve innanzitutto presupporre una relazione di reciproca
esclusione tra chi è cittadino e chi non lo è, tra l’identità sociale,
culturale e politica del Paese d’immigrazione e la differenza, l’alterità di
chi «viene da fuori»[6].
Riflettere sulla nostalgia dello straniero
significa quindi riflettere anche sulla nostra nostalgia, la nostalgia
dell’autoctono, del cittadino dello stato-nazione che, di fronte alla nostalgia
dello straniero verso la sua patria originaria, fa anche lui esperienza della
sua nostalgia «identitaria», della sua «patria originaria» smarrita nel tempo e
nello spazio. La nostalgia nel rapporto di reciproca esclusione tra straniero e
autoctono ci parla quindi di due differenti identità a confronto. Queste due
identità colgono nell’altro una differenza che si introduce nel proprio,
un’intrusione[7] in
un corpo fino ad allora supposto originario e naturale. L’intrusione rende
possibile un duplice, opposto e complementare desiderio di ritorno a ciò che
c’era prima dell’immigrazione e dell’emigrazione.
Pensare alla «nostalgia dello straniero»
significa cogliere un segno che parla della dimensione affettiva, e talvolta
patologica, dell’Io del migrante. Significa però anche cogliere questa
dimensione come espressione di una struttura sociale, politica e culturale che
la rende possibile[8],
struttura che ci induce a ripensare le categorie stesse che la compongono, ad
esempio quelle di comunità e cittadinanza.
Nostalgia e spazio
Sia gli immigrati che arrivano per
lavorare, sia i richiedenti l’asilo e i rifugiati che sbarcano per cercare
protezione da persecuzioni, violenze e guerre, non sentendosi a casa qui da
noi, proveranno un più o meno forte desiderio di ritorno, una nostalgia per lo
spazio e per i luoghi che hanno abbandonato: la loro casa di famiglia, il loro
villaggio o la loro città, la loro nazione. Per il migrante economico che
giunge per lavoro, questo spazio e questi luoghi continuano ad esistere, mentre
per il migrante politico, il rifugiato, lo spazio e i luoghi che è stato
costretto ad abbandonare sono case distrutte, villaggi bruciati, nazioni in rovina.
La sua nostalgia gli fa immaginare uno spazio che non esiste più, ma che forse,
un giorno, esisterà di nuovo, in un futuro più o meno lontano nel quale la sua
patria potrà essere ricostruita
Radice prima della nostalgia di ogni
migrante è il fatto di «non sentirsi a casa propria» nello spazio in cui si
ritrova a vivere nel paese d’immigrazione. Per il migrante economico ogni cosa,
a casa sua, era al suo posto. Per il rifugiato, prima della rottura degli
equilibri sociali e politici, ogni cosa era pure al suo posto. Si sapevano
orientare nello spazio. La casa, il quartiere, il villaggio, la città erano
luoghi noti da sempre. Gli usi, le abitudini, i costumi erano i loro usi, le
loro abitudini, i loro costumi. La lingua parlata era la loro «lingua materna».
Ogni segno che incontravano nello spazio aveva un senso all’interno della rete
di significati che definiva il loro abitare uno spazio proprio.
Giunti nel paese d’immigrazione, vivono
un’esperienza di «spaesamento» («Unheimlichkeit»[9]). Ogni
cosa non è più dove dovrebbe essere. Sono disorientati, lo spazio è
radicalmente differente: la casa, come il quartiere, il villaggio, la città,
sono cambiati. Gli usi, le abitudini, i costumi sono estranei ed ignoti, mentre
la lingua con i suoi segni che «indicano la strada» è incomprensibile. Lo
spazio che sono costretti ad abitare può risultare alienante e «improprio»,
sprovvisto di senso perché non ne sanno cogliere i segni che donano all’abitare
i suoi significati. Lo spazio-mondo in cui (soprav-)vivono può a questo punto
diventare insignificante, pauroso, ostile. Rischiano così, nella solitudine, di
provare ansia e angoscia, e di sentirsi presenti solo fisicamente nello spazio,
perché la loro anima è altrove.
Ed ecco sopraggiungere la nostalgia. La
nostalgia può essere vissuta solo come uno stato d’animo e un sentimento
passeggero, in attesa che termini la fase dell’adattamento al nuovo ambiente, e
che inizi il processo di integrazione[10]; oppure
può diventare un vissuto patologico, sindrome depressiva e di disadattamento
cronica[11]. In
ogni caso, ogni segno che il migrante incontrerà nel nuovo spazio che può
fargli ricordare casa sua e la sua patria d’origine (una musica, un profumo,
un’immagine) stimolerà la sua immaginazione e gli farà desiderare e patire il
ritorno[12]. Ciò
che rende questo ritorno a casa in sé impossibile, in uno spazio pensato
identico a come era prima della partenza, è il tempo. Il ritorno immaginato non
potrà mai essere il vero rimedio al dolore e alla patologia[13].
Nostalgia e tempo
L’immigrato, negli spazi che si trova ad
abitare nel paese d’accoglienza, incontra dei segni che, attivando la sua
immaginazione, gli fanno ricordare altri spazi, quelli di casa sua e della sua
patria d’origine. Questi segni nostalgici agiscono, con la loro presenza
virtuale, nel tempo presente della vita del migrante, facendolo vivere in una
dimensione altra e immaginaria, quella di una sua fantomatica presenza a casa
sua, una presenza morale, simbolica e incorporea[14]. Il suo
vivere in una dimensione altra lo estranea dal suo corpo, corpo che invece si
trova gettato in uno spazio improprio, che non sente suo, spazio che la sua
coscienza fa fatica a conoscere e riconoscere («con la mia anima e il mio cuore
rimango a casa mia, sono qui solo nell’attesa di poter tornare da dove sono
venuto»). Il suo desiderio di ritorno allontana così il suo Io dallo spazio e
dal tempo presenti, distaccandolo, nella sua solitudine, da quel mondo che ora
è diventato, inevitabilmente, anche il suo mondo.
L’illusione che qui agisce è quella del
ritorno[15],
ritorno illusorio perché si fonda sulla convinzione che il viaggio di ritorno
sarà unicamente geografico: dallo spazio del paese d’accoglienza allo spazio
del paese d’origine. Ciò che invece rende questo ritorno illusorio e in sé
impossibile è il fatto che il viaggio non è avvenuto unicamente nello spazio,
ma anche, e soprattutto, nel tempo[16]. La
nostalgia non ci fa desiderare solo un viaggio di ritorno nello spazio, ma
anche nel tempo: un ritorno a casa propria prima della nostra partenza. Il desiderio
è dunque irrealizzabile: intende annullare proprio quella distanza-mancanza,
non solo spaziale ma anche temporale, che si è creata in seguito alla decisione
di partire e di lasciare la propria casa. In seguito alla partenza del
migrante, l’irreversibile processo storico-temporale ha infatti modificato sia
lo spazio di provenienza (la sua casa, il suo quartiere, la sua nazione, che
non sono più gli stessi anche e proprio perché hanno iniziato a vivere senza di
lui) sia l’identità stessa del migrante, che non sarà mai più quello di prima
(anche e proprio perché la migrazione è una di quelle esperienze che modifica
nel profondo il soggetto e la sua identità psichica, sociale, culturale).
La nostalgia, dolore che esprime il
desiderio del ritorno, distacca ed estranea il migrante dalla possibilità di
una sua presenza piena, simbolico-morale e fisico-corporea, nel qui e ora. La
nostalgia produce in lui una dimensione parallela, virtuale e immaginaria, un
richiamo a un altrove spazio-temporale («casa sua») che gli fa desiderare una
presenza perduta per sempre, uno spazio nel tempo passato a cui non potrà mai
più ritornare. I fantasmi del passato agiscono e insistono con la loro presenza
illusoria nel tempo presente della sua vita, e possono così intensificare la
sua sofferenza fino a trasformarla in depressione[17]. Il
futuro e l’orizzonte del suo percorso migratorio rischiano di decomporsi e di
svanire di fronte alla sua coscienza, a causa di un presente che non riesce a
liberarsi dai fantasmi del passato, vanificando così la possibilità di una sua
presenza piena nel qui e ora, la possibilità di un autentico «prendere casa»
nel nuovo spazio e di un autentico «progettare» nel futuro la sua vita nel
paese di accoglienza.
Nostalgia come identità negata
«Straniero» è un’identità che non può non
essere pensata per negazione e non può non essere definita quale
«mancanza-ad-essere». Uno straniero è infatti un essere umano che non è più
pienamente cittadino del suo paese di provenienza e non è ancora pienamente cittadino
del suo paese di accoglienza. Il suo essere è quindi definito da una mancanza
strutturale di identità, psichica, sociale, culturale, politica. È questa
«mancanza-ad-essere» che rende possibile la nostalgia, che per essere compresa
non può avvalersi unicamente di un’analisi dei vissuti soggettivi del migrante,
ma deve essere colta all’interno delle condizioni sociali, culturali, politiche
che rendono possibile il sentimento e la patologia. La nostalgia non è data
solo dal rapporto che i singoli migranti intrattengono con lo spazio ed il
tempo. La nostalgia è un sentimento ed una patologia che va pensata anche in
relazione ai gruppi sociali che definiscono e riconoscono al soggetto
nostalgico un’identità.
Lo straniero è innanzitutto una persona che
ha alle spalle un percorso di emigrazione dal suo paese d’origine. Il ritorno
desiderato dalla nostalgia è impossibile non solo perché la temporalità
storica-esistenziale del migrante non gli permette un ritorno nel suo passato,
ma anche perché la temporalità storica ha modificato e trasformato il contesto
sociale, culturale e politico di casa sua. Se un giorno il migrante dovesse
tornare a «casa», troverà la casa cambiata, così come cambiato sarà il gruppo
sociale che aveva abbandonato, gruppo dal quale non sarà più riconosciuto come
quello di prima, ma come colui che ha acquisito una nuova identità nel paese
d’immigrazione.
Contemporaneamente, nel paese
d’immigrazione il migrante viene innanzitutto riconosciuto come straniero,
colui che ha un’identità sociale, culturale e politica diversa dagli autoctoni.
Viene infatti solitamente nominato a partire dalla sua patria di provenienza (e
non secondo altre categorie identitarie: «un albanese», non «un operaio»). Gli
viene così continuamente ricordata la sua origine e viene riconosciuto dal
gruppo sociale di accoglienza in quanto «non abitante a casa propria».
L’immigrato rischia così di sopravvivere in
una dimensione di sofferenza identitaria, una «zona di transito» definita dalla
sua «mancanza-ad-essere» una presenza piena a se stesso e agli altri, mancanza
di uno spazio e una casa propri, e di un futuro e un progetto di integrazione
autentici (che non sia l’illusorio progetto del ritorno). L’immigrato vive e
subisce infatti una doppia mancanza e una doppia assenza, non è né qui né là[18]. La sua
mancanza ad essere è tale sia nei confronti del paese d’origine: desidera
ritornarvi ma non può, vi è ancora presente moralmente e simbolicamente ma,
avendolo abbandonato, vi ha lasciato la sua irrecuperabile assenza; sia nei confronti
del paese d’immigrazione: desidera essere se stesso ma non può perché si sente
diverso e viene stigmatizzato in quanto tale, vi è presente fisicamente ma vi è
assente simbolicamente e moralmente perché non viene riconosciuto come parte
dell’identità sociale, culturale e politica degli autoctoni.
È in questa «zona di sofferenza
identitaria» che affiora la nostalgia come stato d’animo e come patologia, che
può condurre in una strada senza uscita. Trovandosi ad abitare uno spazio non
proprio che non sente suo, l’immigrato vive un’esperienza di spaesamento che lo
ributta in un passato a cui non potrà più tornare, dimensione fantasmatica che
rende difficoltosa la liberazione dai ricordi di una patria immaginaria. Questa
liberazione diviene ancora più difficoltosa se il gruppo sociale in cui vive
non fa altro che ricordargli la sua provenienza e la sua origine, invece di
rendere possibile una progettualità autentica fondata sulla sintesi tra
presente, passato e futuro[19]. Una
progettualità autentica dovrebbe permettergli una sintesi tra la sua
provenienza culturale e la cultura della società dell’arrivo, in vista della
costruzione di un’identità complessa data dalla mediazione creativa tra gli
usi, costumi, abitudini e valori del paese di provenienza e quelli del paese
d’arrivo.
La mancata apertura da parte del paese
d’immigrazione di uno spazio e di un tempo che conceda agli immigrati la
possibilità di un’effettiva integrazione è anch’essa segno di una chiusura
nostalgica. L’esperienza dello spaesamento e del non sentirsi più a casa
propria non viene infatti vissuta unicamente dall’immigrato, ma anche
dall’autoctono che, quando vede le strade, le piazze e altri luoghi di casa sua
«occupati» anche dagli immigrati, si sente pure lui fuori posto e subisce una crisi
identitaria a cui può nostalgicamente tentare di rispondere con un desiderio di
ritorno a un fantasmatico passato originario.
Di fronte alla chiusura del paese
d’immigrazione e per fuggire dalla «zona di transito», l’immigrato può così
rispondere o tramite un eccesso di nostalgia, l’ossessione identitaria di quel
che è stato; o tramite un rifiuto della propria identità, spogliandosi del suo
passato e tentando di diventare come gli autoctoni («più svizzero degli
svizzeri»). La nostalgia, che come stato d’animo è una tappa essenziale di
qualsiasi percorso migratorio (come non sentire, perlomeno una volta, il fatto
di non essere a casa propria e quindi il desiderio di tornare indietro), si
trasforma in patologia nel momento in cui diventa attaccamento ossessivo a una
immaginaria patria perduta, ai suoi valori, usi e costumi. La nostalgia come
eccesso d’identità produce quindi esclusione e ghettizzazione (ed è la risposta
a ciò che in fondo, in questo processo, desidera il paese d’immigrazione, cioè
il rimedio del ritorno: una «espulsione simbolica»). L’assimilazione, d’altra
parte, suo opposto complementare, significa invece l’oblio e l’annullamento del
passato, sottraendo al migrante qualsiasi possibilità di costruire un’identità
complessa, basata su una storicità e una progettualità autentiche, lasciandogli
solo la possibilità di ripetere nel presente ciò che gli altri vorrebbero che
sia.
Epilogo: la nostalgia come malattia sociale
La nostalgia dello straniero è anche la
nostra di nostalgia. Pensare alla nostalgia dello straniero significa anche
riflettere sulla nostalgia degli autoctoni, grazie a quella funzione-specchio
della migrazione che ci permette di volgere lo sguardo sul «noi». Se
l’immigrato non s’assimila alla nostra cultura, e quindi non passa da «intruso»
a «uno di noi», vivrà allora in comunità straniere marginali all’interno del
nostro stato-nazione. Tali comunità, che talvolta prendono la forma di veri e
propri spazi-quartieri all’interno delle nostre città, diventano così delle
«comunità immaginarie», che attualizzano e rendono presenti agli immigrati le
dimensione simboliche e immaginarie delle loro supposte origini culturali
perdute[20]. Queste
patrie idealizzate, che rischiano di trasformarsi in ghetti identitari e sono
segno dell’impossibilità del ritorno, sono dei gruppi sociali che tentano di
dare una risposta parziale alla nostalgia, facendo sentire gli immigrati almeno
un po’ a casa propria, risposta che, alla lunga, non può che riaffermare quella
assenza di cittadinanza e di patria che sta all’origine del sentimento e della
malattia.
Questo desiderio di comunità[21] come
risposta alla nostalgia non appartiene però unicamente alle comunità straniere,
ma anche alla comunità autoctona. L’esperienza dello spaesamento, il fatto di
non vivere più a casa propria, viene infatti vissuta anche dagli autoctoni,
perché incrociano a casa loro persone dalle origini culturali più svariate, ma
anche perché tale esperienza è oramai diventata un vissuto comune nei tempi
della globalizzazione capitalista e del dominio della tecnica, che
deterritorializzano i luoghi e i segni tradizionali dell’abitare in uno spazio
locale[22]. Questo
comune spaesamento produce ansia e paura nei confronti dell’altro. Si rischia
così di vedere nell’altro, in particolare nello straniero, la causa e la colpa
delle proprie ansie e delle proprie paure, capro espiatorio delle proprie crisi
identitarie, l’intruso che ha corrotto una comunità immaginata in passato pura
e incontaminata. Il desiderio nostalgico degli autoctoni rievoca quindi
romantici e fantasmatici ritorni a un popolo originario che recuperi la sua
identità politica e culturale a partire dal suo diritto naturale alla terra e
al suolo.
La nostalgia come sentimento è una tappa
obbligata nel processo di riadattamento psichico, sociale e culturale che il
migrante deve affrontare nel suo percorso migratorio, in vista della
trasformazione e della costruzione della sua nuova identità data dalla sintesi
tra la cultura di provenienza e la cultura d’arrivo. La nostalgia diviene invece
patologia quando la sintesi e la costruzione del sé sono ostacolate dalla
chiusura identitaria del paese d’immigrazione e dall’attaccamento identitario
del migrante alla sua cultura di provenienza. La nostalgia si rivela qui essere
una malattia sociale fondata su un desiderio di ritorno a due comunità che
intendono celebrare la purezza e la verità delle loro origini e idealizzare il
senso della loro provenienza. Questa doppia chiusura, data dall’assenza di
riconoscimento reciproco, non può che produrre esclusione ed emarginazione
sociale, alimentando una cultura del sospetto e un clima di paura nei confronti
dell’altro. Infine, questo ossessivo attaccamento identitario a un passato
fantasmatico e immaginario non può che ostacolare ad ambo le parti la visione
di un futuro comune, fondato su un’identità culturale complessa costruita a
partire dal riconoscimento reciproco e dalla mediazione creativa tra le persone
che danno vita al tessuto sociale che abitiamo.
Affinché un tale futuro comune sia
possibile, crediamo sia necessario ripensare radicalmente le categorie
politiche, sociali e culturali che hanno dato forma alla modernità e allo
stato-nazione. Questo non solo perché la presenza sempre più consistente di
immigrati all’interno dei nostri confini mette in dubbio le nostre radici
culturali, ma anche e soprattutto perché è lo stesso processo di
globalizzazione e di tecnicizzazione del mondo che mette in crisi le nostre
sicurezze materiali e le nostre certezze simboliche. In questo processo di
spaesamento globale si potrebbe vedere nell’altro venuto da fuori non una
differenza da sopprimere o da espellere in nome della nostalgia del passato, ma
la possibilità del futuro e del nuovo. Da sempre la migrazione, per ragioni di
lavoro o per cercare rifugio altrove, è stata desiderio di libertà e simbolo di
emancipazione[23],
in nome di una cittadinanza universale che travalica i confini della
stato-nazione[24],
e in vista della creazione di una comunità globale che fondi il suo essere non
sulla nostalgia di un’essenza perduta ma su un futuro di relazioni da costruire
e da vivere insieme[25].
[1] J. Hofer, «Dissertazione
medica sulla nostalgia», in A. Prete (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento, Cortina, Milano, 1992, pp.
44-61.
[2] J. Starobinski, «Il concetto
di nostalgia», in idem, pp. 85-117.
[3] V. Jankélévitch, «La
nostalgia», in idem, p. 125.
[4] B. Anderson, Comunità immaginate. Origini e diffusione
dei nazionalismi, Manifestolibri, Roma, 1996.
[5] Sulla «funzione-specchio» e
sul «pensiero di stato» si vedano A. Sayad, La
doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato,
Cortina, Milano, 2002; S. Palidda, Mobilità
umane. Introduzione alla sociologia delle migrazioni, Cortina, Milano,
2008.
[6] J. Derrida, Sull’ospitalità, Baldini e Castoldi, Milano,
2000.
[7] J.-L. Nancy, L’intruso, Cronopio, Napoli, 2000; R.
Parenzan, Intrusi. Vuoto comunitario e
nuovi cittadini, Ombre Corte, Verona, 2009.
[8] A. Sayad, op. cit.
[9] S. Freud, «Il perturbante»,
in Opere, vol. 9, Boringhieri,
Torino, 1976; M. Heidegger, Essere e
tempo, Longanesi, Milano, 1976, pp. 168-226.
[10] J. Starobinski, op. cit., pp. 116-117.
[11] E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni,
Feltrinelli, Milano, 2008, pp. 58-75.
[12] J.-J. Rousseau, «Il suono
natio», in A. Prete (a cura di), op. cit.,
pp. 67-68.
[13] V. Jankélévitch, op. cit., p. 119.
[14] Sui segni virtuali del passato
che insistono nel presente, G. Deleuze, Differenza
e ripetizione, Cortina, Milano, 1997, pp. 107-52.
[15] A. Sayad, L’immigrazione o i paradossi dell’alterità, Ombre Corte, Verona, 2008,
pp. 76-110; I. Chambers, Paesaggi
migratori, Meltemi, Roma, 2003, pp. 9-17.
[16] I. Kant, «L’irreversibile», in
A. Prete (a cura di), op. cit., p.
66.
[17] E. Borgna, op. cit., pp. 60-63.
[18]
A. Sayad, op. cit.
[19]
G. Deleuze, op. cit., pp. 119-26.
[20] A. Appadurai, Modernità in polvere, Meltemi, Roma,
2001, pp. 207-13.
[21] Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Bari, 2003.
[22] M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano,
1995; G. Deleuze e F. Guattari, Millepiani.
Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma, 2003.
[23] S. Palidda, op.
cit.
[24] E. Balibar, Noi, cittadini d’Europa? Le frontiere, lo stato, il
popolo, Manifestolibri, Roma, 2004; S. Benhabib, Cittadini globali. Cosmopolitismo e democrazia, Il Mulino, Bologna, 2008.
[25] J.-L. Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli,
1995; G. Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.